22 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Chi abbia visto almeno una volta un’immagine del Gran Bazar, del ponte di Galata o della Yeni Cami, la Moschea Nuova di Istanbul, non può che rimanere sorpreso di fronte alle fotografie di Aydın Büyüktaş, paesaggi che si curvano all’infinito e che mostrano più punti di vista nello stesso scatto, distorcendo le prospettive e sovvertendo la percezione dell’osservatore. Non si tratta, però, di un semplice – per quanto tecnicamente complesso – esercizio di stile. Dietro a queste immagini si nasconde una precisa filosofia che il fotografo turco ha tratto dal romanzo fantascientifico Flatlandia di Edwin Abbott: un romanzo rivoluzionario per la sua epoca, la seconda metà dell’Ottocento, in cui si raccontano le vicende degli abitanti di Flatlandia, figure geometriche che vivono nella sicurezza del loro mondo bidimensionale, improvvisamente sconvolto dall’arrivo di una misteriosa sfera.
A queste pagine, Büyüktaş si è ispirato per la sua serie Flatland, che riunisce immagini della città di Istanbul e dei suoi monumenti più famosi, catturate con un drone e fuse con un software 3D per dar vita a paesaggi surreali. Fotografie di fronte alle quali non si può fare a meno di seguire l’esempio delle creature di Flatlandia, lasciandosi condurre nella terza dimensione, pronti ad abbandonare le nostre sicurezze e ad aprirsi a uno sguardo nuovo sulla realtà.

Dieci domande a Aydın Büyüktaş

Aydın, come ti sei avvicinato alla fotografia?
A livello professionale, ho iniziato a fotografare quando lavoravo nel campo degli effetti speciali e dell’animazione 3D, per gli sfondi, le texture, gli stop motion. Però fotografo sin da quando sono piccolo.

Come è nata la tua serie Flatland?
Era il 2006. Stavo leggendo Iperspazio di Michio Kaku dove ci sono molti riferimenti al romanzo di Edwin Abbott, Flatlandia. Sono rimasto molto impressionato dal modo in cui questo libro, scritto nel 1884, esemplifichi la difficoltà di comprendere le interconnessioni tra le dimensioni e i passaggi interdimensionali. Il fatto che il romanzo cerchi di raccontare la transizione interdimensionale e la terza dimensione come seconda dimensione corrispondeva alla mia indagine sulla terza dimensione. Quando uno degli abitanti di Flatlandia, il quadrato, incontra una sfera proveniente da Spacelandia (il mondo a tre dimensioni), che gli rivela la presenza della terza dimensione, per la prima volta egli si rende conto di come finora abbia vissuto in un mondo a due dimensioni. L’idea di “curvare” lo spazio e il pensiero che potessi vedere Istanbul da questa prospettiva hanno portato alla nascita di questo progetto per cui non avrei potuto trovare titolo migliore di quello scelto dallo stesso Abbott.

Qual è il messaggio che vuoi comunicare?
Viviamo in luoghi che, la maggior parte delle volte, non catturano la nostra attenzione, luoghi che trasformano la nostra memoria, a cui gli artisti regalano una nuova dimensione, dove le percezioni che attraversano la nostra mente vengono demolite mentre altre prendono il loro posto. Questo lavoro aspira a lasciare l’osservatore da solo con un punto di vista ironico, romantico e multidimensionale.

Quanti luoghi hai fotografato e dove?
La serie Flatland è dedicata a Istanbul. Per la serie Flatland II ho scattato fotografie in quarantacinque luoghi diversi, in Arizona, Texas, California e New Mexico. Ho realizzato trentacinque collage tra cui ho scelto le diciannove immagini finali.

Quanto tempo impieghi a scegliere i soggetti che vuoi fotografare e da che cosa dipende la tua scelta?
Impiego circa due mesi a cercare i luoghi da fotografare su Google Earth e a pianificare i voli. A volte mi capita di trovarli casualmente mentre sono impegnato in sessioni fotografiche. Cerco soprattutto luoghi che siano caratterizzati dal ritmo, da pattern particolari, da linee che creino la prospettiva. Preferisco questi luoghi perché mi danno la sensazione di poter vivere nei miei sogni.

Quali sono i luoghi più belli che hai fotografato?
Le fotografie del Gran Bazar di Istanbul e del deserto dell’Arizona sono le mie preferite. Amo molto anche le città storiche, per esempio dell’Italia, ma è davvero difficile ottenere i permessi per fotografare con il drone in quei luoghi.

A livello tecnico, come realizzi queste fotografie? E come le post-produci?
Per ogni immagine sono necessarie almeno diciassette fotografie. Mi occorrono circa quattro mesi per trovare la giusta composizione. All’inizio creavo dei collage in modo analogico ma non ero soddisfatto e sono passato al digitale: ci vogliono molti giorni di lavorazione con Photoshop per arrivare al risultato desiderato.

Quali sono le difficoltà maggiori che trovi nel tuo lavoro?
Innanzitutto occorre aspettare le giuste condizioni meteorologiche. Capita spesso di tornare a casa senza fotografie a causa del maltempo, di problemi tecnici, di uccelli che attaccano il drone o di mancati permessi.

Ci parli delle altre tue serie Parallel Universe e Gravity?
Amo i soggetti fantascientifici. Mi piace ricrearli nel nostro mondo e giocare con la percezione delle persone.

Ci parli della tua attrezzatura?
La maggior parte delle volte fotografo con il drone. Per la serie Parallel Universe, ho attaccato la macchina fotografica a uno stativo (Manfrotto 269 HDBU) così che potessi fotografare da un punto più alto e ho scattato in remoto dal mio cellulare

Questo e molto altro su Digital Camera n. 199

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