28 Maggio 2019 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

“Take nothing but pictures, leave nothing but footprints”. Non portare via nient’altro che le fotografie, non lasciare altro che le tue impronte: è questa la prima e più importante regola che unisce i fotografi che si dedicano alla Urban Exploration, l’esplorazione di edifici e strutture costruiti dall’uomo, ormai abbandonati, alla ricerca di tracce del passato. Avventurieri della macchina fotografica, attratti dal fascino che questi luoghi emanano e mossi dal desiderio di far rivivere le storie di chi questi luoghi li ha abitati. A unire i membri della “comunità” UrbEx è il rispetto di un’etichetta, di un codice di comportamento pensato proprio per tutelare i luoghi abbandonati. Eppure, è questa stessa etichetta a impedire agli UrbEx di rivelare le coordinate di strutture ed edifici, per evitare che questi ultimi siano presi d’assalto dal grande pubblico. Dunque, un alone di mistero e segretezza circonda gli “esploratori urbani”, regalando alle loro immagini un’aura affascinante ed enigmatica.

Urban Exploration, esplorazione di edifici e strutture costruiti dall’uomo, ormai abbandonati, alla ricerca di tracce del passato

A raccontarci qualcosa di più di questo genere di fotografia è Alessandro Mordenti che, dopo essersi avvicinato quasi per caso a questo genere, grazie a un amico che gli ha mostrato alcuni scatti, da cinque anni si dedica al progetto Tra polvere e tempo: «All’inizio fotografavo più che altro casolari o ruderi, per lo più quello che trovavo nella mia zona. Poi ho cominciato a cercare luoghi più affascinanti, arredati, dove trovare oggetti che potessero raccontare la storia di chi era vissuto lì. E tutto era coperto da polvere, come a proteggere le cose dallo scorrere del tempo. Da qui è nato il nome del progetto».
Guardando le immagini realizzate da Alessandro – dove si ritrovano librerie colme di libri, spartiti abbandonati sui tasti di un pianoforte, ritratti ancora appesi alle pareti – si capisce bene l’intento che muove il nostro autore: «A parte il fascino che trasuda dall’abbandono, quello che mi piace è raccontare la storia del posto attraverso quello che è rimasto nei luoghi. Ecco perché non tocco o sposto nulla. Anche se qualcuno ha spostato qualcosa prima del mio arrivo, io lascio tutto com’è, perché comunque fa parte della storia del posto, di chi ha vissuto in quel luogo fino al momento in cui sono arrivato io». Alessandro ci racconta che, solo in Italia, sono migliaia i luoghi – ville, fabbriche, ospedali – lasciati in questo stato di abbandono, molti di più di quanto si potrebbe immaginare. «Sono tutti luoghi esaltanti – prosegue il fotografo – perché ognuno ha la sua storia e ti dà emozioni diverse. Però, fra tutti, quello che preferisco è quello che chiamano la Villa dell’Artista. È un luogo molto particolare, pieno di cose, ha una lunghissima storia che risale addirittura al Quattrocento. Dentro è completamente arredato ed è come se le persone fossero uscite in quel momento o da poco tempo e dovessero rientrare: piatti nel lavandino, tavole apparecchiate, un salone principale enorme, tutto completamente arredato, con i libri nella libreria. Addirittura in una stanza ci sono le pantofole appoggiate vicino al letto sfatto. È come se il tempo si fosse bloccato nel momento in cui l’ultima persona è uscita». Alessandro ci spiega anche che i fotografi UrbEx rispettano un’etichetta ben precisa: «Non toccare niente, non portare via niente, non divulgare le coordinate al grande pubblico, non rovinare e vandalizzare. Per entrare in un posto non si rompe nulla: se la casa è sigillata, non si entra. Mi è capitato di fare centinaia di chilometri, arrivare in un luogo e non poterci entrare. In fondo sei in casa d’altri. Io vado lì per fotografare, se no farei lo scassinatore». Parlando di attrezzatura fotografica, invece, il nostro autore ci racconta che porta sempre con sé «una reflex, teleobiettivo e grandangolare (a seconda di quello che mi serve), una torcia, ma soprattutto treppiede e scatto remoto: essendo posti prevalentemente bui, nei quali spesso non apro nemmeno le finestre ma uso solo la luce che filtra, i tempi di esposizione sono molto lunghi, a volte anche 20-30 secondi, quindi treppiede e scatto remoto sono indispensabili». Nel salutarci, chiediamo ad Alessandro su che cosa sta lavorando al momento: «Credo che non darò mai uno stop definitivo al progetto Tra polvere e tempo, un po’ perché mi affascina, un po’ perché è il primo di questo tipo che ho avviato. Però, sto cominciando a lavorare su un altro progetto, sempre nell’ambito dell’abbandono: fotografare gli ex manicomi d’Italia, per raccontare la storia di questi posti, magari aiutandomi con foto dell’epoca e frasi di medici e pazienti. Se questo progetto portasse qualcuno a interessarsi al recupero e alla riqualificazione di questi luoghi ne sarei felice. È un peccato vederli lasciati a loro stessi».
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