Incontriamo Maki Galimberti a Milano, nel suo nuovo studio in Chinatown di cui è palesemente fiero: ampi spazi e al centro un grande lucernario che gli permette di avere sempre a disposizione, oltre ai flash, anche tanta luce naturale con cui avvolgere i suoi soggetti preferiti: le persone. Maki (lui, fotografo delle star) ci mostra una serie di immagini di gente “comune” che nel prossimo futuro faranno parte di un libro e di una personale.
Libro fotografico e mostra saranno un po’ il riassunto della tua carriera? Sai, arrivato a… una certa età sto prendendo seriamente in considerazione la cosa. Ho cominciato a guardarmi indietro e, mettendo assieme i migliori ritratti che
ho realizzato in passato, mi sono reso conto che effettivamente di materiale ne ho, eccome. Allo stesso tempo mi sono accorto che – essendo da sempre professionista per l’editoria – i miei soggetti sono quasi tutti delle celebrità pazzesche. Vorrei invece creare qualcosa che vada al di là del nome del fotografo. Mi piacerebbe raccontare questo Paese, gli “italiani”. Per farlo, ho deciso di prendermi un po’ di tempo per fotografare – con lo stesso approccio e con lo stesso linguaggio fotografico iconizzante – anche persone “normali”. Mi immagino quindi di affiancare a un ritratto, diciamo, di Ligabue quello di un suonatore di tamburo della banda di un qualche paese sperduto tra gli Appennini! Per questo motivo, sto organizzando una sorta di roadmap per identificare i posti in cui scattare, proponendo alle amministrazioni pubbliche e alle comunità in giro per l’Italia il mio progetto Casting Italy e dargli una legittimazione: non posso certo fermare la gente per strada o… citofonargli!
Le persone comuni però spesso tentennano davanti all’idea di farsi immortalare in un ritratto posato, autodefinendosi poco fotogeniche. Ma esiste davvero la “fotogenia”? Sì. Anche se, precisiamo, dire a una persona che è fotogenica spesso è tutt’altro che un complimento, perché significa che sei più figo in foto che dal vero [ride]! In realtà, la “fotogenia” in senso stretto è qualcosa riservato ai grandi professionisti che di mestiere stanno davanti all’obiettivo, perché chi nella vita fa tutt’altro viene bene – quindi appunto è fotogenico – se in una qualche misura è inconsapevole di quanto sta per accadere. In genere non ho alcuna difficoltà a individuare in un volto l’aspetto più “bello”, il più interessante, ma appena alzo la macchina fotografica spesso la persona comune lo perde totalmente!
Tu però non hai cominciato con il ritratto? No, ho iniziato come “garzone di bottega” per un’agenzia di fotocronache di Milano. Mi fece entrare Mimmo Carulli, che incontrai la prima volta ai tempi del liceo artistico durante un’occupazione che lui doveva fotografare. Lo rividi poi per caso qualche anno dopo – mentre frequentavo la facoltà di Architettura. Il giorno dopo lavoravo per lui. La mia idea di fotografo, allora, era quella della professione cool da raccontare agli amici (e alle ragazze…). Durante i primi anni in agenzia, però, mi occupai di tutto tranne che di scattare: si trattava di un duro lavoro e dovevo dimostrare di saperci fare prima di poter avere la mia macchina fotografica. Però mi fu affidato un compito altrettanto importante: la vendita ai giornali delle immagini realizzate dai fotografi dell’agenzia. Giravo per Milano in motorino per cercare di battere la concorrenza delle altre agenzie rivali. A 18 anni irrompevo nelle redazioni di La Repubblica, del Corriere della Sera, de Il Giorno con foto che riguardavano eventi di ogni genere, dal traffico alla cronaca nera. All’inizio occuparmi della vendita mi mortificava, ma in seguito ho capito che fu una vera fortuna: imparai quali fotografie erano necessarie al business delle agenzie di cronaca, quali “funzionavano” e quali no; questa formazione da account mi servì per capire fin da subito le dinamiche del rapporto domanda/offerta e comprendere la relazione con il cliente – oltre che per crearmi una rete di relazioni che mi sarebbe servita tanto in seguito.
Poi il passaggio dietro l’obiettivo… Esordii come fotografo di cronaca, e allora mi bastava avere tra le mani una macchina fotografica e una dotazione ridotta all’osso. Fu questa la mia formazione. Dopo cinque anni arrivò un’ulteriore svolta nella mia carriera, grazie a Beppe Preti, allora influentissimo art director di Panorama. All’inizio mi diede incarichi correlati con quello che ero solito fare (reportage sulle bande giovanili, eventi politici…), ma passare quasi tutti i giorni nella redazione di Panorama mi fece evolvere “darwinianamente” verso il ritratto. D’altra parte, a differenza dei quotidiani, l’orientamento delle riviste era quello sì di raccontare fatti e avvenimenti, ma soprattutto le storie delle persone, in primis con le interviste. La scuola di Panorama mi ha portato quindi a diventare ritrattista, sebbene ancora con un metodo molto “basico”: mai luci pianificate, mai preparazione di un set; andava sfruttata al meglio la situazione che trovavo sul posto. Dopo tante copertine per Panorama, Epoca e altri magazine Mondadori, tutto cambiò quando cominciai a lavorare per Vanity Fair, catapultato nel mondo dei make-up artist, dei fashion stylist, dei brainstorming con il direttore, il photo editor e l’art director, e dell’ibridazione del mestiere di ritrattista con il linguaggio della moda. Fui un po’ il protagonista di un esperimento: riuscire a fare, magari nei dieci minuti concessi dai soggetti della copertina (persone “normali”, non fotomodelli), quello che nella fotografia di moda poteva richiedere una giornata. Fu allora che mi accorsi che il lavoro di equipe dava dei risultati pazzeschi…

Rossy De Palma (al centro), attrice e modella, musa del regista Pedro Almodovar. © Maki Galimberti
L’editoria oggi è in evidente crisi... Sì. Il numero di incarichi è decisamente diminuito per i fotografi e sono arrivato
al punto di chiedermi se fossi diventato io improvvisamente “obsoleto”, se fosse necessario cambiare qualcosa nel mio modo di lavorare. Certo, questo è sempre possibile, ma anche i giornali sono cambiati, non esercitano più il “quarto potere” e richiedono sempre meno fotografie. La mia risposta al problema è stata quindi quella di orientarmi maggiormente sul lavoro con le aziende. Oggi sono direttamente le realtà economiche, produttive e creative del Paese che hanno bisogno di visibilità a ingaggiare il professionista capace di svilupparne l’immagine. Ad esempio, la casa editrice che deve promuovere un libro chiama me e paga me per ritrarre lo scrittore di turno, immagini che poi, paradossalmente, saranno distribuite gratis alle riviste. E in ogni caso, sono certo che il bisogno di immagini non sia diminuito: sono i giornali che forse non sanno più utilizzarle come una volta, innescando a loro volta la disaffezione del lettore – quello delle vendite non è soltanto un calo “fisiologico”.
Cosa consiglieresti a un fotoamatore che avesse ambizioni di fare il salto di qualità e diventare un ritrattista “serio”? Per cominciare, smettere di fotografare soggetti che si conoscono (amici, familiari) può essere una buona scuola. Io stesso ho difficoltà a scattare con le persone con cui ho un rapporto, nemo propheta in patria d’altra parte, e avere a che fare con soggetti estranei è un esercizio più ambizioso per chi ama il ritratto. In ogni caso, la cosa che dà forza sia al risultato sia al modo di raggiungerlo è quella di avere un’idea – magari vaga ma persistente – di cosa possa legittimare quello che stai facendo. Deve esserci sempre quel minimo di “senso di necessità” in quello che vuoi fare. La crescita del fotoamatore secondo me passa dalla capacità di “ripetere il risultato”, quindi l’idea di affrontare dei soggetti che abbiano un senso nel loro insieme non solo aiuta a comporre un progetto coerente ma anche ad arrivare a un bel ritratto non in maniera casuale ma secondo quello che è a tutti gli effetti il “metodo scientifico”: dati gli stessi fattori, il risultato è il medesimo. Così ci si comincia ad avvicinare al cinismo del professionista e a lasciarsi un po’ alle spalle il significato stesso della parola “fotoamatore” che comunque è splendida perché legata all’amore, alla passione per la fotografia.
Cosa pensi dei social? Sono necessari nella tua professione? Io mi sono iscritto a Facebook tre anni fa. Ho aspettato la mezza età per farlo, quindi tra una ventina d’anni passerò a Tik Tok [ride]! A parte gli scherzi, Facebook e Instagram oggi sono praticamente un obbligo, di fatto sostituiscono il sito personale: tutti quelli con cui hai a che fare per lavoro la prima cosa che fanno è guardare le tue foto su Instagram. Lo uso come un aggiornamento di portfolio, sul piano puramente professionale.

Un ritratto di Claudia, anestesista dell’Ospedale Gavazzeni di Bergamo, dopo un turno sfiancante in piena emergenza Covid-19 © Maki Galimberti
Nel periodo del lockdown per l’emergenza Covid-19 sei tornato un po’ alle tue origini dedicandoti – oltre che al ritratto – anche al reportage. Non è stato facile. D’altra parte, era un momento in cui il terrore era diffuso e c’era scarsissima conoscenza del fenomeno. Sono riuscito a introdurmi nelle terapie intensive dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e del Gavazzeni di Bergamo, gentilissimi nel concedermi i permessi. Ho voluto fare un doppio lavoro: quello che effettivamente mi ha aperto le porte degli ospedali è stato il ritratto dei medici e degli infermieri a fine turno. Ho allestito un set fuori dalla terapia intensiva, cogliendo i soggetti ancora con i segni sul viso degli apparati di protezione, come hanno fatto anche altri miei colleghi. Una volta lì, però, ho trovato il modo anche di entrare nelle terapie intensive, dissotterrando l’ascia di guerra dello “sbarbato” che ai tempi faceva reportage. A differenza del solito, ho lavorato senza assistenti, per minimizzare i rischi. Quando sono uscito dal primo ospedale per sicurezza non sono tornato a casa ma ho preferito rimanere in studio, dormendo in sacco a pelo sul divanetto – e senza aver litigato con la fidanzata! [ride].
Maki Galimberti

Maki Galimberti © Chiara Scandurra
Maki è nato a Milano 22 anni prima di Photoshop. È un rinomato ritrattista di personaggi famosi, studioso di fenomeni sociali e testimone dei grandi eventi della nostra epoca. Ha l’abilità unica di catturare in un’immagine il lato più vero del soggetto fotografato, rendendolo immediatamente interessante per lo spettatore. Le sue fotografie sono state pubblicate su centinaia di copertine e campagne pubblicitarie in tutto il mondo. Per lui la fotografia è “il mezzo migliore per conoscere persone nuove”.
a cura di Andrea Rota Nodari
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