23 Aprile 2020 di Redazione Redazione
Il nome di Susan Meiselas ha cominciato a circolare alla fine degli anni Settanta, grazie alle sue potenti immagini della sollevazione sandinista in Nicaragua contro la dittatura del presidente Anastasio Somoza. Oltre che per la vicinanza ai combattenti, le Kodachrome di Susan, che mostravano rivoluzionari armati di bottiglie Molotov e guerriglieri mascherati in posa contro vivaci murales urbani, colpivano per la bella palette cromatica. Nelle sue immagini, la guerra assumeva una qualità poetica che all’epoca sembrava unica. I suoi colleghi giornalisti e fotografi statunitensi lo pensavano di sicuro: nel 1979 le assegnarono la Robert Capa Gold Medal dell’Overseas Press Club di New York per “lo straordinario coraggio e gli eccezionali reportage”.
Combattenti sandinisti

Combattenti Sandinisti. La varietà di fazzoletti e cappelli colorati non riesce a celare la giovane età dei combattenti, alcuni dei quali posano apertamente e orgogliosamente per la fotocamera di Susan durante la rivolta sandinista che ha rovesciato la dittatura in Nicaragua nel 1979.


A quarant’anni da quel premio, cominciamo con il chiedere a Susan cosa stia facendo nel momento in cui la contattiamo. «Sono appena rientrata con un volo notturno da Sundance e sono un po’ annebbiata, ma sono tutta intera!», ci racconta. Sundance è il più grande festival cinematografico indipendente americano, tenuto ogni gennaio, ed è interessante scoprire che il cinema contemporaneo continui a offrire ispirazione a questa maestra del documentario…
Susan, hai un archivio ricchissimo, ci racconti di che cosa ti stai occupando in questo momento? Al momento sono nel mezzo dei prparativi per un paio di mostre. Significa ripercorrere i miei archivi e ripensare al lavoro che c’era intorno ad alcuni dei miei scatti più, diciamo… iconici, o classici. Per esempio, prendiamo Carnival Strippers: non era unico, è nato nell’ambito di un contesto più ampio. Negli anni Settanta ho seguito alcuni altri progetti relativi alle donne che poi non sono cresciuti fino a comporre libri o raccolte. Sto anche lavorando a un progetto legato alla mia comunità locale.

Che sarebbe? Vivo a Little Italy (Manhattan) da quarantasei anni. Sto lavorando con alcuni vicini a un libro che si intitolerà Tar Beach e raccoglierà immagini anonime delle feste di famiglia sui tetti.
Ms. Olympia

Ms. Olympia
La rappresentazione delle donne è un tema che Susan ha seguito in molti progetti, tra cui le serie sulle bodybuilder. New York, 1988.


Sembra divertente! Lo è, sono immagini meravigliose! Questo è il quartiere in cui è cresciuto Martin Scorsese, che ci ha scritto la prefazione. Stiamo cercando di chiudere il libro proprio adesso. Quindi, di recente non ho scattato molto, mi sono occupata più di rivedere e ricontestualizzare il mio lavoro.

Tornando a Carnival Strippers, che è stata una delle tue prime raccolte, che cosa ti aveva attirato verso questo argomento? Be’, in realtà non stavo cercando le ballerine e le spogliarelliste, ma quando le ho trovate mi hanno affascinata e coinvolta. In parte perché, come donna, non ero ammessa all’interno delle tende e non potevo vedere lo show delle ragazze nella loro interezza. Partecipavo alle fiere come un qualsiasi visitatore e progressivamente ho trovato il modo di accedere ai camerini e al backstage e di documentare il lavoro delle ragazze.Era un momento in cui si iniziava a riflettere sull’oggettificazione delle donne e sul modo in cui loro si vedevano – e venivano viste. Erano temi attuali e cruciali, soprattutto per una giovane donna come ero io all’epoca.
Passare da Carnival Strippers alla copertura della rivoluzione in Nicaragua sembra un bel salto: come è successo? Non sono passata letteralmente da Carnival Strippers ai reportage in Nicaragua, ma è vero che in mezzo non ho fatto altro che potesse diventare un libro o un set di quel tipo. Ho pubblicato Carnival Strippers nel 1976 ed è stato il portfolio che ho presentato all’agenzia Magnum. Quando sono entrata in Magnum, ho trovato una cultura molto diversa da quella cui ero stata esposta fino a quel momento… e mi ha aperto opportunità cui credo di aver risposto. Quando sono andata in Nicaragua per la prima volta, non sapevo che avrei finito per dedicare una dozzina di anni all’America Latina. In quel periodo di mezzo, tra Carnival Strippers e il Nicaragua, ci sono stati tanti piccoli progetti, alcuni dei quali non hanno nemmeno mai visto la pubblicazione, a parte qualche cosa nel libro Mediations (2018).
Torniamo a quando sei entrata in Magnum: erano poche le fotografe donne in agenzia al tempo… Io non l’ho per niente percepita così e non so cosa intendi con “poche”. Dal mio punto di vista, c’erano qualcosa come ventidue membri, tra ventidue e venticinque nel 1976. E c’erano già almeno cinque donne. Non sono rimaste tutte, ma in quel momento c’erano Eve Arnold, Inge Morath, Marilyn Silverstone, Abby Heyman, Mary Ellen Mark, e poi io. Parliamo di sei donne in un gruppo di venti-venticinque membri, non è mica male. È un punto di vista sano, anche considerando quanto se ne parla oggi: io credo che Magnum abbia cominciato molto presto a includere le donne.
Eravate tutti alla pari? Mi chiedevo se avessi un mentore, o qualcuno da cui poter imparare... Sai, ci sono state diverse persone che mi hanno incoraggiata, che mi hanno aiutata a immaginare come potesse essere muovermi in modo diverso nel mondo. C’è stato Burk Uzzle, che mi ha aiutato a fare i bagagli per il primo viaggio a Cuba. C’è stato Gilles Peress, che mi ha dato un’idea della vita quotidiana in un ambiente sull’orlo della guerra come era il Nicaragua all’epoca. Ci sono stati colleghi come Alex Webb o, più tardi, Eugene Richards, con cui condividevo il lavoro – riguardavamo insieme gli scatti. Eravamo tutti molto vicini allora. Ci sono molti modi in cui puoi ascoltare e osservare il lavoro di chi ha iniziato prima di te. Non è come andare a scuola o seguire un corso formale di storia della fotografia (cosa che non ho mai fatto). È vivere la storia.
La stanza di Ritu

La stanza di Ritu.
La camera 12 della Ruby House di Wolverhampton. Sembra spoglia e austera, ma è un rifugio per le donne abusate che trovano riparo tra le sue mura.

Un’altra cosa diversa rispetto ad allora è la tecnologia… Certo. Oggi tutti possono scattare foto con il loro smartphone, caricarle e avere un’identità, un profilo, un seguito e tutto quanto.
Come ti rapporti ai social media? Per lo più non li uso. Tutti ti incoraggiano a farlo, ma per me è solo una distrazione rispetto a cose che mi interessano di più. Nel caso specifico, trasformare il mondo in mostre, libri o anche film, per me, è più interessante di Instagram, o della creazione di un flusso costante di follower. È una dinamica che non mi coinvolge, ma che appassiona molto le generazioni più giovani. Capisco l’emozione, sia chiaro, ma è solo che, in questo momento della mia vita, mi sembra meno rilevante o urgente.

La tua carriera è incredibile. Quale consiglio daresti a un ventenne, come eri tu all’inizio, che muovesse i suoi primi passi nel campo? Credo che il termine “carriera” non sia del tutto appropriato, perché non credo di aver mai cercato di avere una “carriera”. Forse c’è qualcosa di importante nel permettersi di avere le proprie curiosità, di seguire l’istinto e di lasciarsi guidare dalla passione per sapere cosa guardare e cosa cercare.
Leggi l’intervista completa su Photo Professional #126, in edicola domani o in versione digitale qui. 

Susan Meiselas – Fotografa documentarista

Susan Meiselas
Nata a Baltimora nel 1948, ha iniziato la sua vita in fotografia dopo la laurea in educazione visuale ad Harvard. Dopo
la pubblicazione del primo libro, Carnival Strippers, e l’ingresso in Magnum, Meiselas è partita per il Nicaragua per documentare l’insurrezione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, che ha rovesciato il regime militare nel 1979. La sua copertura di questo conflitto, e negli anni successivi di molti altri in America Latina, è risultata in molti libri, mostre e riconoscimenti. Meiselas ha anche co-diretto due documentari: Living at Risk: the Story of a Nicaraguan Family (1986) e Pictures from a Revolution (1991). Tra i suoi libri citiamo Nicaragua: June 1978-July 1979 (1981), In the Shadow of History (1997) e Mediations (2018).
http://www.susanmeiselas.com

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