5 Febbraio 2019 di Vanessa Avatar

Aisha Maïmouna Guerresi

Il profilo del baobab e la linea sinuosa dell’architettura islamica, la formula calligrafica del bismillah che affiora dal fondale scuro, ricordano ai protagonisti delle opere più recenti di Maïmouna Guerresi che la loro identità è preziosa. Un doppio legame che contempla una nuova identità riflessa nel paesaggio veneto che li circonda, perché sono ragazzi e ragazze che appartengono alla seconda generazione di famiglie nordafricane e senegalesi emigrate nell’Italia del Nord-Est. «Conoscere le differenze è anche un modo per accettare se stessi», afferma l’artista che all’inizio degli anni Novanta, in Senegal, ha abbracciato la religione musulmana. Anche nel titolo di questo progetto realizzato tra il 2016 e il 2018, Aisha in the Wonderland, presentato a Seattle e Saint Louis (2018, Stati Uniti) e nell’ambito della Biennale di Dakar, ritroviamo quella componente che si riflette in una ricerca di “sincretismo estetico” in cui l’elemento simbolico, affidato anche al cromatismo, è evocativo, talvolta ironico e persino criptico, ma mai scontato. La gestualità ha un ruolo decisivo all’interno della messinscena, costruita citando la grande invenzione della pittura occidentale: la prospettiva. Come i maestri pre-rinascimentali e rinascimentali anche Maïmouna colloca l’uomo al centro dell’universo, in rapporto diretto con il divino. Le figure – soprattutto quelle femminili, in parte associate a quelle di intellettuali e mistiche che la storia dell’Islam ha confinato nell’oblio e a cui l’artista restituisce la voce – mantengono la loro ieraticità e l’aspirazione a una monumentalità anche quando sono ritratte in spazi o pose inconsuete, sfidando la gravità e l’equilibrio per affermare quella forza interiore che le contraddistingue. In quest’uso del corpo associato alla metamorfosi c’è traccia dell’esperienza della Body Art, praticata da Guerresi all’inizio della sua carriera ed evolutasi nei successivi lavori scultorei, installativi e fotografici. In particolare, nella serie Giants (2007-2012) la dualità pieno/vuoto è evidente anche nella linea bianca (presente nelle opere successive) tracciata sui volti: un segno di luce che mette in relazione il noto con il temuto ignoto. La fotografia non è che la fase conclusiva di un lungo processo creativo che l’artista intraprende realizzando da sé anche i costumi e le scenografie dei set fotografici, sia nella casa-studio di Monteforte d’Alpone (Verona) che sulla terrazza della casa di famiglia a Dakar.

Immagine in evidenza Aisha’s Stories 2, 2016, Lambda print ©Maïmouna Guerresi / courtesy Mariane Ibrahim Gallery /Officine dell’Immagine

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