20 Aprile 2016 di Redazione Redazione

di Giovanni Pelloso


Con la fotografia ha cercato di unire due nazioni. Dall’estremo Nord, al confine con la Cina, all’estremo Sud, guardando il mare che conduce in Giappone
Nel 2004 è tra i pochi fotografi occidentali a entrare in Corea del Nord con l’intenzione di esplorare le anime di un Paese sconosciuto e capace, con la politica, di tenere in scacco il mondo. Questo luogo isolato e impenetrabile, Alessandro Belgiojoso l’ha eletto da oltre dieci anni a territorio di ricerca. Un progetto che, successivamente, si è esteso alla Corea del Sud, in un confronto e in un dialogo tra le diversità, sia nell’accezione geo-politica che sociale. Il suo merito è stato, anzitutto, di non aver mai assunto delle posizioni pregiudiziali e propagandistiche, ma di aver vestito i panni, prima, dell’osservatore e, poi, del narratore. In pochi anni è riuscito a dare vita a un mosaico composito e rivelatore, grazie a un viaggio investigativo che non è rimasto sulla superficie, ma che è stato condotto con consapevolezza e coscienza.


Com’è nata quest’avventura coreana?
«Come tutte le belle cose è nata un po’ per sbaglio e un po’ per scherzo. Nel 2004, ero con alcuni amici in cima a un vulcano in Kamchatka. Davanti a noi, il Pacifico. A un certo punto, con la neve alle ginocchia, qualcuno disse: «Il mondo è finito qui». Sentivamo, in qualche modo, di aver esaurito l’esplorazione orizzontale delle terre ignote. Si pensò che si dovesse fare un viaggio più verticale, forse più meditativo, per essere ancora più lontano da casa. Non ricordo chi, in quel momento, accennò alla Corea del Nord. All’epoca era ancora più chiusa di quello che può sembrare oggi. Era un vero e proprio miraggio. Quest’idea rimase a sedimentare nella mia testa durante l’inverno per poi, l’estate successiva, vederci riuniti alla volta di questa meta enigmatica. Scoprii un mondo silenzioso e ordinato, molto diverso dal nostro, quello Occidentale. Rimasi una settimane e realizzai una serie di fotografie. Tornato in Italia, composi un portfolio e lo portai alla Portfolio Review di Dallas. Lì, l’ultimo giorno, incontrai un curatore tedesco. Salutandomi, volle portare con sé il mio cd. Poco dopo mi invitò alla Daegu Photo Biennale, in Corea del Sud, chiedendomi di esporre le immagini sulla Corea del Nord. Per l’epoca era una novità assoluta».
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Il nuovo quartiere verticale di Pyongyang, sorto accanto alla zona residenziale riservata alle autorità, cioè ai vertici delle forze armate, è destinato al popolo e agli artisti meritevoli. Sotto l’edifico sorge un centro commerciale con negozi e ristoranti frequentato da giovani. Una delle domande che si pongono gli osservatori, che costantemente s’incontrano sotto mentite spoglie quando visiti il Paese, è se questa nuova élite che rappresenta il futuro della nazione sarà in grado di essere il motore del cambiamento o se si allineerà ai propri privilegi, confermando lo status quo.


E gli sviluppi successivi, quali furono?
«Rientrato in Italia, mi confrontai con l’editore Brioschi – stavo progettando un libro – e lui mi invitò a pensare alla Corea nel suo intero. A dedicare la mia ricerca, se vogliamo, a un Paese che non esiste, visto che è diviso in due dalla storia recente, anzi, da una guerra – ricordo che non è mai stato firmato un trattato di pace –, ma che, al contempo, è unito da una storia millenaria. Ho elaborato questo concetto della Corea, un viaggio impossibile? perché, nell’impossibilità fisica di passare da una parte all’altra del Paese, volevo, grazie alla finzione della fotografia, ricongiungere due realtà separate e distanti. Ancora oggi quel confine risulta una barriera invalicabile – è tra le più controllate militarmente – anche se, materialmente, è segnato da una fila di piastrelle. Per passare da una Corea all’altra, non vi è altro modo che transitare da Pechino. Servono due giorni».
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Ero a Kaesong, la città più meridionale del Paese, in occasione della Marcia Internazionale per la Pace del 2013. Organizzata dal governo di Pyongyang, furono invitate delle delegazioni dei Paesi non allineati insieme a reduci di guerra americani e a monaci buddisti. Per alcune ore si ascoltarono dei discorsi anti imperialisti, si inneggiava alla fine delle ostilità della guerra scoppiata nel lontano 1950 – quella con la Corea del Nord –, di cui non è mai stato firmato un vero trattato di pace, ma solo un armistizio nel 1953: le due potenze sono, formalmente, ancora in guerra.


Tante mostre e conferenze. Qual è l’episodio recente di maggior soddisfazione?
«Grazie al nostro ambasciatore in Corea del Sud, il libro è giunto nelle mani del curatore del padiglione coreano alla Biennale di Architettura di Venezia del 2014. Ho partecipato con altri artisti e ricercatori alla rappresentazione della complessità di un Paese diviso – ricordo che il titolo era Crow’s Eye view –. La grande soddisfazione è giunta con l’assegnazione del Leone d’Oro. Tutte le opere presenti hanno contribuito a dar vita a un complesso e contradditorio modo d’interpretare la modernità di un Paese spaccato in due. Attraverso l’architettura e la lettura del paesaggio, Seoul e Pyongyang, seppure tanto diverse, finiscono a volte per assomigliarsi. Inattesa, quanto gradita, è stata la richiesta di accompagnare l’ambasciatore della Corea del Nord in visita al padiglione nazionale. Se pensiamo che ogni sede gode dei diritti di extraterritorialità – è come un’ambasciata – ho assistito a un fatto unico e storico».
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È uno degli angoli più trafficati di Seoul. Siamo nei pressi della stazione ferroviaria, nel quartiere di Yongsan-gu. Quest’immagine è l’emblema dell’operosità coreana. In questi decenni, la Corea del Sud è stata protagonista di un’importante crescita economica, superando l’Italia nelle classifiche dei Paesi più sviluppati del mondo. Nella capitale hanno il loro quartier generale importanti multinazionali, quali la Samsung, la Hyundai, la LG, la Daewoo e la Kia Motors. Malgrado la forte competitività a cui sono sottoposti gli individui sin da bambini, il sorriso non manca mai sui loro volti.


Dopo dieci anni, il progetto prosegue ancora?
«Il lavoro che sto affrontando in questi mesi riparte proprio da lì, dalle fotografie viste ai Giardini della Biennale. L’architettura diviene, in questo momento, per me, una sorta di ponte ideale per porre in contatto due nazioni, per poter offrire un’articolata lettura in merito alla memoria e all’identità».
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Seoul Tower. Posta a un passo dal cuore della città, all’interno di un quartiere panoramico, la terrazza dei lucchetti dell’amore è una delle attrazioni turistiche della capitale. Da qui si sovrasta la megalopoli, con milioni di luci a perdita d’occhio sui due lati del fiume Han. Il romanticismo coreano è ai nostri occhi un po’ naïf, ma fa parte della formalità di un popolo dalle tradizioni molto antiche. I giovani coreani del Sud vivono in un mondo libero rispetto ai cugini del Nord, ma con delle pressioni sociali molto forti data l’estrema competitività della società contemporanea.


BIO
Nato a Milano nel 1963, ha vissuto e lavorato in Italia e all’estero. Dal 2005 focalizza la sua ricerca su tematiche relative all’esplorazione del concetto di confine. Il progetto Corea, un viaggio impossibile? è stato esposto in Italia e all’estero – oggi è anche un libro (Brioschi Editore) –. È uno dei pochi fotografi occidentali ad aver avuto una personale in Corea del Nord. Alcune delle sue immagini sono state scelte per il Padiglione della Corea, vincitore nel 2014 del Leone d’Oro della Biennale di Architettura di Venezia. La Galleria d’Arte Moderna di Palermo ha ospitato nel 2009 la mostra di fotografie e video Terra e Luce che lega il lavoro sull’oculus della Gurfa al progetto trentennale del Roden Crater di James Turrell. Nel 2012, pubblica per Hermès la monografia Inafferrabile Milano (Silvana Editoriale). Collabora attivamente con le principali testate italiane di architettura e di arredamento.

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