In Japanese Houses il rapporto individuo-società viene esplorato con una valenza universale che va al di là del contesto specifico. L’artista giapponese Toshihiro Komatsu ne parla durante la quarantena trascorsa nella sua casa a Kyoto, dove vive con la moglie e la figlia, in un momento in cui la vita domestica è stata più importante di quella sociale.
L’intervista
La casa è il soggetto di “Japanese Houses” in cui esplori il confine tra vita pubblica e privata, sottolineando anche il concetto di abitazione come diritto sociale. In tempi di Covid-19, com’è cambiata la sua caratteristica di potenziale comfort zone? Quali sono le tue riflessioni? «Sì, la casa dovrebbe essere una zona confortevole e sicura per proteggere la famiglia, ma non è sempre così. Purtroppo, sappiamo che in tutto il mondo il lockdown per fermare la diffusione del coronavirus sta incrementando la violenza domestica, una realtà molto triste e contraddittoria. Qui, a Kyoto, le scuole sono chiuse da marzo. Nella mia famiglia siamo in tre. Vivo con mia moglie Aya e nostra figlia An che ha 7 anni in una casa di legno a due piani di circa 114 mq alla periferia di Kyoto. Oltre alla casa, ho il mio studio dove di solito trascorro la maggior parte del tempo in solitudine, quando non ho lezione alla Kyoto Seika University. In risposta allo stato di emergenza del governo giapponese alcuni ristoranti, caffè, negozi, gallerie e musei sono stati chiusi temporaneamente, inclusa la galleria di artigianato dove lavora mia moglie. Sto trascorrendo più tempo di prima in casa con Aya e An. Guardo documentari in TV, gioco a badminton con An e aiuto Aya nelle faccende domestiche. In generale, credo che con la quarantena, in Giappone, l’unità familiare si stia rafforzando. É una cosa buona. La cosa brutta, però, è che il coronavirus sta creando distanze sociali con le altre persone – amici, colleghi, studenti, genitori e parenti – innescando la paura di essere infettati e trasferire il virus agli altri. Rimanere a casa è un modo per contenere il contagio, tuttavia proprio a seguito della campagna Stay Home le persone sono estremamente isolate e frustrate, perché gli esseri umani sono animali sociali. Siamo ansiosi di uscire e di tornare a parlare guardandoci negli occhi. Certo, i social media sono un valido strumento per comunicare con gli altri, ma non possono sostituire l’incontro a tu per tu e insegnare arte da remoto è particolarmente difficile».

The Yasukawa House, Hamamatsu (2002) © Toshiro Komatsu
C’è una relazione tra “Japanese Houses”, in cui ritrai persone che al posto della testa hanno la foto della loro abitazione, e “Artist and His Studio”, realizzato durante la tua residenza alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten (1995-96), dove indossi in maniera performativa il modellino del tuo studio? «Japanese Houses nasce come evoluzione di Artist and His Studio, un titolo che ho preso in prestito dai dipinti di maestri come Rembrandt, Vermeer, Velasquez che si sono ritratti nei loro studi. Io, invece, mi ero messo in testa un modellino del mio studio, l’Atelier 217 e passeggiavo per Amsterdam posando in luoghi simbolici come i mulini a vento o i cartelloni pubblicitari. Lo studio è metaforicamente alleggerito dal suo ruolo originale di edificio per diventare l’identità errante di un artista nomade. Le finestre, confine tra interno ed esterno, diventano percorsi aperti che portano luce, aria e paesaggi dentro la struttura. Gli specchi all’interno del modellino, infatti, riflettono e sottolineano l’ambiente esterno, visibile dalle finestre, eliminando il senso di chiusura. Anche in questa serie esploro il rapporto tra architettura, corpo umano e ambiente circostante ma, diversamente da Japanese Houses dove uso la fotografia, qui insieme all’aspetto performativo è presente l’elemento scultoreo tridimensionale».
In “Japanese Houses” le foto sono state scattate a Hamamatsu, la tua città natale e in altre in cui hai vissuto: Shizuoka, Tokyo, Shiga e Kyoto. Qual è la relazione tra lo spazio individuale di cui sottolinei l’identità e quello urbano? «Nel 2002, quando da New York mi sono trasferito a Kyoto, ho ricominciato a lavorare a questo progetto usando la fotografia a colori. Negli ultimi anni ho fotografato soprattutto a Kyoto e Otsu, vicino a dove vivo attualmente. Rispetto ad Hamamatsu, dove si trovano molte case tradizionali in stile country, le abitazioni e i loro abitanti che ho fotografato recentemente a Kyoto sono più urbanizzate e sofisticate. Le case riflettono non solo le famiglie, ma anche l’ambiente naturale e culturale in cui sorgono; gli scenari sullo sfondo sono i giardini di quelle case o raffigurano il contesto circostante».

Agano House, Otsu City, 2019 – 74x91cm, lambda print © Toshihiro Komatsu (courtesy of the artist & Kana Kawanishi Gallery)
Perché fotografare solo l’esterno e non gli interni? «In queste opere mi chiedo quale sia il volto della famiglia e, dato che in architettura la facciata o fronte è la parete esterna, ho pensato di fotografare il suo volto esteriore. È così in tutte le foto della serie, tranne che The Yasukawa House, Hamamatsu (2002) in cui ho ritratto i due membri della famiglia in piedi in una stanza della casa. Un’immagine che offre altre possibilità che vorrei esplorare in futuro».
Toshihiro Komatsu
Nato a Hamamatsu City nel 1966, studia pittura alla Tokyo National University of Fine Arts and Music e consegue il Master of Science in Visual Studies al MIT – Massachusetts Institute of Technology di Cambridge (Stati Uniti). Tra le mostre personali recenti: 2020 – Topophilia: Japanese Houses, Kana Kawanishi Gallery, Tokyo; 2015 – Offering, Echigo-Tsumari Art Triennale 2015, Nakajo Higashi-Karekimata, Tokamachi City; 2013 – Sea Room, Setouchi Triennale 2013, Takamijima; 2012 Snow Room, Echigo-Tsumari Art Triennale 2012, Nakajo Higashi – Karekimata, Tokamachi City. Vive e lavora a Kyoto dove dal 2002 insegna pittura, scultura e installazione al Dipartimento di Belle Arti, Facoltà di Arte della Kyoto Seika University.
di Manuela De Leonardis
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