21 Febbraio 2019 di Vanessa Avatar

La fotografia nello specchio rotto del tempo

Conservo a casa una fotografia di mia madre. Le è stata scattata, qualche mese prima che morisse, dal mio compagno che, per riuscirvi, ha dovuto dissimulare lo scatto fingendo di esplorare le funzioni di una macchina fotografica appena acquistata. È una foto particolare perché lì mia madre, inconsapevolmente, porge all’obiettivo un’altra foto in bianco e nero: un ritratto di quando aveva circa vent’anni che voleva mostrarci. Così due volti, due momenti della medesima individualità, si offrono uno accanto all’altro. Questa fotografia, oltre a suscitarmi una grande tenerezza ogni volta che la osservo, mi ha dato parecchio da pensare. Perché in essa è racchiuso il motivo del successo straordinario che la fotografia ha avuto nell’arco di questi ultimi centosettant’anni e rotti. Pierre Bourdieu, nel suo volume sugli usi sociali della fotografia risalente alla metà degli anni Sessanta, già sosteneva che l’enorme diffusione che essa ha avuto non potesse dipendere soltanto dal suo essere alla mano; ma che essa, evidentemente, intercettava dei bisogni latenti, dava loro voce.

La fotografia nello specchio rotto del tempo: la ricerca di qualcosa di essenziale nell’identità

Uno di questi bisogni è sicuramente la ricerca di qualcosa di essenziale nell’identità: di una essenza che permanga e che renda i cambiamenti che tutti noi attraversiamo coerenti con qualcosa di unico e unicamente nostro che ci connota. Al tempo stesso, e in apparente contraddizione, la fotografia risponde al bisogno di lasciare memoria delle nostre evoluzioni nel mondo sociale perché l’identità nulla sarebbe se non si riflettesse nell’intorno che ce la legittima, ce la conferma e restituisce. Così le tappe importanti della biografia di ciascuno hanno affidato alla fotografia la celebrazione dei riti di passaggio. Come dice Ferdinando Scianna, non c’è fine più degna per una fotografia che l’album di famiglia. Questo continua ad accadere anche se l’album ha ceduto il passo ai nostri smartphone. Ma oggi la fotografia non è soltanto traccia dell’esperienza vissuta. Nella modernità essa ha inaugurato la coscienza della temporalità, ne è stata riflesso. Si trattava di un’esperienza di ascesa per tappe, fatta di investimenti di medio e lungo raggio all’interno di vite tese alla salvezza o alla sua versione laica: il successo. Vite in cui aveva senso sperare di “realizzarsi”. Ma oggi l’esperienza comune del tempo è profondamente cambiata e la fotografia continua a esserne riflesso. Una moltitudine di vite costrette a vivere di esperienze istantanee e slegate da ogni continuum, di vite precarie, usa la fotografia per esplorare le latenze delle identità e dei legami di ciascuna di esse. Lo aveva intuito Cindy Sherman con i suoi autoscatti. Molti altri artisti hanno intercettato questa rinuncia forzata alla verticalità del tempo. In un tempo che si dilata orizzontalmente più che riti di passaggio viviamo fenomeni di trasformismo. Chissà se la fotografia delle nostre istantanee e forzosamente giocose trasformazioni riuscirà ancora a restituirci un principio di essenzialità e coerenza, di somiglianza a noi stessi.

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