8 Settembre 2020 di Giovanni Pelloso Avatar

Evento di apertura del Festival del Buon Vivere 2020, la mostra dà vita a un viaggio per immagini che percorre l’evoluzione del linguaggio fotografico a partire dagli anni Trenta del Novecento fino ai giorni nostri. Dai grandi reportage di guerra ai cambiamenti dei costumi sociali, dalla ricostruzione post-bellica alle questioni di genere, dalla guerra in Vietnam alla società dei consumi, fino all’osservazione del ruolo della donna nei paesi extra-occidentali, l’evento offre un percorso narrativo che attraverso la bellezza, l’emozione e l’incisività della fotografia promuove e sensibilizza sui temi della società e della memoria collettiva.

Abbiamo intervistato il curatore Walter Guadagnini per comprendere pienamente il valore di una proposta tra le più interessanti della seconda metà dell’anno.

Già dal titolo s’intuisce il focus della mostra. È un gioco di parole per spostare l’accento dalla classica declinazione al maschile di ‘essere umano’ verso quella al femminile. Essere umane, come indicazione di uno specifico della fotografia di reportage e di documentazione. Per anni è stato uno dei temi meno frequentati da studiosi e ricercatori, ma negli ultimi tempi si registra un interesse sempre crescente intorno a queste tematiche. La peculiarità di questa mostra è che abitualmente, quando si analizza l’attività delle donne nella fotografia, si ragiona intorno ai temi dell’identità, al rapporto con il corpo, in una chiave più introspettiva e più esplicitamente di genere, mentre in questo caso si pone l’accento sui molti nomi di valore che popolano un mondo fondamentalmente machista.

Migrant worker’s camp, Tulare Co. California, nov. 1938, © Dorothea Lange
© Newsha Tavakolian / Magnum Photos

La storia delle prime autrici Magnum, per esempio, ci pone di fronte alle diffidenze di un mondo tutto al maschile. Sì, come in ogni ambito della società, d’altra parte, è facile oggi riconoscere l’identità di quel mondo. Va però anche detto che le donne sono riuscite a ottenere nello specifico ambito fotografico un ruolo importante ben prima che in campo artistico. Ricordo che Margaret Bourke-White realizza la copertina del primo numero di Life. Credo sia sintomatica da questo punto di vista la vicenda di Gerda Taro, che per anni è stata etichettata come “la compagna di Robert Capa”,mentre oggi finalmente riconosciamo l’importanza della sua figura indipendentemente da quella del più noto fondatore di Magnum.

Il percorso espositivo risponde a quali logiche?La struttura di base è cronologica, divisa sostanzialmente in tre grandi periodi. Il primo, dagli anni Trenta fino ai Cinquanta-Sessanta, il successivo dagli anni Sessanta agli Ottanta e l’ultimo arriva ai giorni nostri. Durante gli anni Trenta assistiamo all’avvento della fotografia documentaria e di reportage con Dorothea Lange, Tina Modotti, Margaret Bourke-White, Berenice Abbott e altre grandi firme. C’è poi il periodo d’oro con la nascita dell’agenzia Magnum e qui troviamo Inge Morath, Ruth Orkin, Eve Arnold. Sono presenti anche alcune autrici italiane – penso a Lisetta Carmi, Carla Cerati e Paola Mattioli che testimoniano a loro volta la forza di queste figure all’interno di una società spesso molto arretrata dal punto di vista del costume come quella italiana di quei decenni –. La sezione finale pone in risalto soprattutto il tema della globalizzazione. Si esce dalla logica per cui la fotografia, e non solo quella femminile, è prodotta sostanzialmente in Occidente, all’interno del blocco dei Paesi capitali- sti più sviluppati e si apre a uno sguardo davvero mondiale. All’interno di questi tre blocchi ogni figura è rappresentata con una decina di immagini tratte da una o massimo due serie. In questo modo, credo, si può comprendere al meglio l’opera e il pensiero di ogni autrice. Di Lisetta Carmi, ho voluto esporre I travestiti, della Morath sono presentati i lavori realizzati con le maschere di Saul Seinberg, mentre di Eve Arnold è esposto lo splendido servizio sulla sfilata di moda ad Harlem, di straordinaria attualità peraltro. È stata privilegiata la scelta di un portfolio significativo piuttosto che una formulazione che raccolga un po’ di tutto.

Madre con bambino di Tehuantepec, Messico, 1929 © Tina Modotti / Archivio Cinemazero Images

Ogni serie inquadra l’autrice e la sua sensibilità. Vedremo sequenze note o ci sono anche delle curiosità particolari? L’idea di fondo è dettata dalla volontà di costruire attraverso lo sguardo femminile il racconto di quasi cento anni di storia, cercando delle serie particolarmente significative rispetto al periodo e al tema. Di Lee Miller, per esempio, sono presentate le immagini che lei ha realizzato in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. Ho voluto premiare quelle che evidenziavano un carattere più surreale, tralasciando quelle prettamente documentarie – mi riferisco a quelle, pure tragicamente bellissime, dei gerarchi nazisti suicidi –. Ho lasciato, partendo dall’immagine di lei nella vasca da bagno di Hitler, tutti gli scatti che raccontavano la guerra attraverso il suo sguardo personalissimo, unico nel suo genere.

Tra le tante immagini esaminate per la selezione finale, c’è un’autrice che, pur conoscendone il valore, ti ha sorpreso? Di sorprese non parlerei, avendo guidato io la scelta. Una cosa alla quale non avevo fatto caso e che mi ha davvero meravigliato per la maturità del lavoro è stata la scoperta della data di nascita di Nanna Heitmann. Questa giovane autrice – ha 26 anni – mi ha colpito per la maturità e la consapevolezza della sua opera.

di Giovanni Pelloso

Informazioni sull’evento

Titolo: ESSERE UMANE: cento anni di fotografia al femminile. – Mostra curata da Walter Guadagnini, ideata e realizzata in collaborazione con Monica Fantini e Fabio Lazzari.
Dove: Complesso Museale di San Domenico, Forlì
Quando: Dal 28 novembre 2020 al 20 febbraio 2021
Orario: tutti i giorni dalle ore 9.30-19 | esclusi i lunedì e il 25 dicembre. Aperture straordinarie: lunedì 28 dicembre e 4 gennaio 2021
Web: www.essereumane.it

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