5 Gennaio 2019 di Vanessa Avatar

Gianni Berengo Gardin

«La fotografia mostra ciò che vedi». È il mantra con cui, da oltre sessant’anni, Gianni Berengo Gardin racconta la quotidianità con uno stile coerente e limpido, in cui il rigore formale si fonde con l’impegno civile del suo lavoro.

Gianni Berengo Gardin ha scritto uno dei capitoli più intensi e significativi della storia della fotografia

Prima di dedicarsi alla fotografia, gli piaceva lavorare il legno e costruire modellini di navi. Poi gli è venuta la passione per gli aerei e ha cominciato a scrivere per riviste di aviazione che gli chiedevano, insieme agli articoli, le immagini dei velivoli e dei raduni. È la fine degli anni Quaranta e, da passione, i mezzi di trasporto diventano per lui sempre più una necessità. Da Roma si trasferisce a Venezia insieme alla famiglia e qui entra nel circolo fotografico “La Gondola” dove incontra Paolo Monti, uno dei fondatori del gruppo nonché carismatico animatore dell’ambiente amatoriale italiano. Nello stesso periodo, uno zio d’America gli spedisce alcuni libri consigliati dall’amico Cornell Capa, fotogiornalista di «Life». In questo modo, vede prima degli altri le immagini dei grandi della fotografia sociale americana – gli autori della FSA e i reporter delle testate più autorevoli – e realizza che esiste un modo diverso di fare fotografia, meno autoreferenziale ed estetizzante di quello praticato nei circoli e più vicino alla documentazione giornalistica, ambito in cui vorrebbe lavorare. Così nel 1953 parte per Parigi. Per due anni respira un clima decisamente più vivace e libertario di quello italiano. Qui la gente può finanche baciarsi per strada senza rischiare una multa per “atti osceni in luogo pubblico”, come invece avviene nel suo Paese, e lui si ritrova a fotografare coppie di innamorati in ogni angolo della città. Frequenta il circolo fotografico “Les 30×40” che ogni mese ospita grandi fotografi come Doisneau, Boubat e Ronis. Proprio a quest’ultimo resterà particolarmente legato anche dopo il suo ritorno a Venezia. Quasi tutti i fotografi d’Oltralpe, all’inizio degli anni Cinquanta, utilizzano già fotocamere di piccolo formato per riprendere la quotidianità e la vita per strada. Le loro istantanee d’impronta umanista sono più popolari, comprensibili e meno impegnate di quelle italiane. Berengo assimila questo linguaggio documentario e al tempo stesso poetico e lo fonde con la lezione del grande reportage sociale americano. Dopo qualche anno dal suo ritorno a Venezia, decide di dedicarsi completamente e professionalmente alla fotografia. Nel 1965 si trasferisce a Milano, una città in pieno fermento culturale ed economico. Qui apre uno studio e lavora su più fronti: matrimoni, editoriali di cucina, fotografie industriali. Per quindici anni collabora con il Touring Club e con l’Istituto Geografico De Agostini, scattando fotografie di paesaggio e architettura perlopiù a colori. Parallelamente si dedica al reportage e alla fotografia sociale che pratica esclusivamente su pellicola in bianco e nero. Nasce alla fine degli anni Sessanta il progetto Morire di classe che realizza insieme a Carla Cerati in alcuni manicomi italiani. Un lavoro di grande dignità, com’è nel suo stile, in cui non indugia sulla malattia, ma documenta le condizioni in cui vivono i pazienti, rinchiusi in veri e propri lager. Con lo stesso lucido rispetto più tardi si avvicina alle comunità di zingari in alcune città italiane. Intanto avanza il digitale, ma Berengo resta profondamente legato alle origini chimiche della fotografia, per lui l’unica garanzia di veridicità dell’immagine. Per questo, già da molti anni sul retro delle sue stampe appone un timbro che recita “Vera Fotografia. Non corretta, modificata o inventata al computer”. Gianni Berengo Gardin ha scritto uno dei capitoli più intensi e significativi della storia della fotografia. E se per lui è stata una scuola di vita e di conoscenza, oltre che l’approdo a una presa di posizione netta in favore della tradizione, le sue immagini sono per la fotografia una scuola di stile e narrazione, attraverso cui ha preso forma un prezioso e raffinato documento della nostra epoca.

Immagine in evidenza Le vacanze degli italiani: picnic nel parco, Lombardia 1969

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