23 Novembre 2018 di Vanessa Avatar

Mario Beltrambini

I paesaggi privi di riferimenti geografici sono visioni di quella pianura padana romagnola, cara anche a Michelangelo Antonioni, che guardano a luoghi vissuti e dimenticati con una suggestione diversa.
Oggetti persi e luoghi abbandonati, dettagli e spazi solo apparentemente insignificanti assumono una veste priva di separazione tra interiore ed esteriore, grazie a una poetica personale fatta di memorie e tempi dilatati, dove l’attesa diventa panacea alla fredda velocità dello sguardo cui siamo abituati. La ricerca di Mario Beltrambini indugia sulla luce e sulla sospensione temporale, per cogliere quella bellezza immobile capace di entrare nel cuore dello spettatore attraverso un meditato uso della tecnica fotografica, in antitesi alla compulsività del medium  digitale e del web.

Mario Beltrambini: fotografo autodidatta  affascinato dalle immagini di Man Ray

Fotografo autodidatta, cresce nell’ambiente culturale di Savignano sul Rubicone e, affascinato dalle immagini di Man Ray, si avvicina al surrealismo per poi decidere di muoversi in ambito più concettuale. Sul finire degli anni Novanta, lo studio personale e il bisogno di cambiamento lo avvicinano alla fotografia stenopeica, una tecnica con un linguaggio primordiale apparentemente semplice che deriva dalla camera oscura e che, grazie a un piccolissimo foro e a calcoli matematici finalizzati al controllo della profondità di campo, permette alla luce di entrare e imprimere l’immagine su una pellicola. Detto questo bisogna anche considerare gli effetti della casualità che si sommano a una tecnologia artigianale e volutamente imperfetta. Attraverso apparecchi fotografici spesso autoprodotti e fatti di scatole, mancanti di obiettivo e diaframma, l’autore percorre molte strade per ottenere i risultati cercati, soprattutto grazie ai tempi di posa che aumentano proporzionalmente alla dimensione del formato scelto e alla lontananza di ciò che si vuole fotografare. Questa ricerca lo porta a firmare nel 2010 il manifesto Slow Photo , che pone al centro della prassi fotografica «la lentezza, l’attenzione, la meditazione, la cura, l’approfondimento, il rallentamento, la profondità». Una dichiarazione d’intenti volta a un differente approccio filosofico e comportamentale firmata, tra gli altri, da Gianni Berengo Gardin, Alessandra Capodacqua, Diego Mormorio e Franco Vaccari. Si modifica qui la concezione del tempo per assecondare la necessità di “percepire” il luogo fotografato dove l’uomo è volutamente assente, per poi mutarlo in interpretazione concettuale. I primi lavori di Mario Beltrambini con macchine a foro stenopeico hanno come soggetti i paesaggi del Rubicone, con ruderi o colonie desolate sopravvissuti al tempo e dove il suo sguardo mira a ridare lustro a quell’indifferenza generata dall’incuria degli uomini. L’attesa si fa protagonista e, quando il foro stenopeico è aperto, i lunghi tempi di posa danno la possibilità all’autore di guardare l’azione nel suo insieme, mentre la luce scrive. Da qui, si evince l’importanza della luce in quell’estetica evocativa di cose apparentemente non importanti, dove la meraviglia dell’attenzione e della lentezza diventano parte integrante del linguaggio fotografico e la storia, l’idea e la progettualità sembrano risolversi in un unico scatto.

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