Architetto, fotografo, scultore, direttore artistico e regista: questo è Piero Gemelli. Un artista completo, poliedrico e capace di passare da un progetto all’altro con straordinaria naturalezza

11 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Architetto, fotografo, scultore, direttore artistico e regista: questo è Piero Gemelli. Un artista completo, poliedrico e capace di passare da un progetto all’altro con straordinaria naturalezza. La sua carriera è come un racconto cinematografico, in cui la storia è nel pieno dello svolgimento e ancora da scrivere. Piero Gemelli afferma di aver sempre lavorato con i mezzi che aveva a disposizione, tentando costantemente di ottimizzarli per ottenere il massimo risultato. Il suo percorso professionale è costellato da importanti e prolungate collaborazioni con Vogue, Shiseido, Montblanc, Tiffany. Nel suo studio, la vita quotidiana si intreccia a doppio filo con il lavoro professionale, con un racconto fotografico intimo e in divenire.

Incontriamo Piero Gemelli: eleganza, segno istintivo, moda e creatività

Dai suoi esordi, lo scenario lavorativo è cambiato. Può raccontarci il suo impegno professionale e il suo modo di incontrare il mondo?
«La nostra storia è depositata in noi, al nostro interno, a memoria e materia della nostra creatività. Ritengo che il processo creativo si sviluppi su due binari quasi sempre paralleli, talvolta sovrapposti, comunque composti dal sentire dettato dall’inconscio e dal raziocinio che, nell’attività professionale, si concretizza nella professionalità. Se l’inconscio crea la base emotiva dell’idea creativa, il raziocinio offre la struttura necessaria per organizzare e realizzare la visione di quel sentimento che percepiamo per renderlo visibile agli altri. Bruno Munari diceva che la fantasia permette di pensare qualsiasi cosa, ma solo la creatività è in grado di renderla concreta e realizzabile. Alla mia storia concorrono passioni contrapposte e interessi solo apparentemente contraddittori. Si è sviluppata tra desideri non manifestati e casualità volontariamente cercate. È questo il meccanismo che sta alla base del lavoro. Ho sempre cercato un punto di equilibrio tra la libertà creativa e i limiti racchiusi nelle richieste dei clienti. In questa continua ricerca tra la progettualità dell’architetto e l’anarchia emotiva del creativo, ho sempre trovato il modo di raccontarmi; per fortuna, senza avere mai avuto la sensazione di esserci riuscito fino in fondo, altrimenti il gioco sarebbe già finito».

L’esperienza con la rivista Vogue  ha permesso di iscrivere il suo nome tra i maestri della fotografia di moda. Che avventura professionale è stata?
«Il periodo di Vogue, una delle mie casualità cercate, e gli studi di architettura sono alla base della mia formazione e della mia professionalità creativa pur in un contesto commerciale. Intorno all’immagine giravano grandi interessi. Il raffronto del tuo lavoro avveniva con professionisti di spessore. Ogni scatto si traduceva in una sorta di test riferito alla capacità di meritare quella posizione raggiunta su quel palcoscenico mediatico e al tuo valore, anche economico. Non ho mai avuto input, condizionamenti, richieste precise di dover lavorare in un certo modo basandomi su canoni preesistenti o su fotografie di riferimento. Sono stato libero di interpretare la consegna, rispettando sempre i parametri commerciali del cliente, del giornale e dell’azienda».

Dualismo e contrapposizioni che si tengono in reciproco equilibrio stanno alla base del suo lavoro. Come traduce questo concetto in fotografia?
«Il dualismo, la contrapposizione di forze, gli opposti in contrasto sono il motore della creatività, ma soprattutto del mio sentire sempre alla ricerca di quel punto di equilibrio tra desiderare e avere. Ne ho fatto la mia cifra creativa portando avanti una scelta che metto in continua discussione per verificarne la validità, cercando di darle più forza indagando le ragioni della sua corrispondente opposta.  Vivo immerso nella tensione tra essere e divenire che cerco di fotografare, per far mio quell’attimo esistito solo per me e in quel preciso momento, forse illusorio, di una realtà immaginata e mai realmente esistita. Quel che resta fissato nella pellicola già sensore è un’immagine che racconta solo parzialmente una visione, lasciando a chi guarda il compito di offrire la sua personale interpretazione, osservandola con gli occhi della propria emotività e della sua memoria intima».

Cos’è la fotografia oggi? Crede che sia maggiore la volontà di raccontare la propria interiorità o di apparire, indossando una maschera fittizia? Quale futuro vede per questo settore?
«La fotografia sta diventando oggi un linguaggio sempre più adulto, trasversale, un linguaggio immediato, grazie anche alla grandissima facilità di accesso e all’illimitata democraticità del mezzo. Viviamo in un mondo che produce immagini continuamente e di loro si nutre millantandole spesso per verità. La fotografia non documenta una realtà, ma la manipolazione che se ne fa con un personale punto di vista, con una determinata inquadratura, con un’esposizione. Tutti, veramente tutti, fanno fotografie per mostrare, credere, ricordare, apparire, dimostrare. Pochi, davvero, sono in grado di utilizzarla per un proprio e più completo racconto – e credo che saranno proprio questi a emergere –. Rimarranno queste persone, coloro che hanno qualcosa da raccontare e che riescono a farlo con la fotografia. Fondamentale è il viaggio del racconto e non la meta del risultato tecnico, o peggio, del virtuosismo di maniera, che spesso si insegue per dare una vita illusoria a immagini normali che nulla hanno di speciale».

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