23 Aprile 2020 di Redazione Redazione
Simon Roberts sta realizzando uno dei più interessanti percorsi nella landscape photography contemporanea. Da vent’anni documenta l’interazione tra l’uomo e l’ambiente in cui si muove. L’opera del fotografo inglese deriva da un processo lento, non tanto perché occorrono tempo e concentrazione per realizzarla, ma perché è una fotografia che trova un suo significato solo se guardata, nel corso degli anni, con la giusta prospettiva storica. È considerato tra gli autori contemporanei che meglio hanno interpretato un atteggiamento di ricerca nella continua connessione tra presente e passato. 

L’intervista

La fotografia di Simon Roberts racconta il mondo in cui viviamo, ma il suo non è un manifesto politico. «Penso che alcune delle mie immagini affrontino istanze politiche – racconta –, ma non desidero esprimere la mia personale visione politica. Sono interessato a rappresentare qualcosa che possa essere lasciato a singole e libere interpretazioni».

Quando hai preso consapevolezza del tuo ruolo di fotografo? Nel desiderio di comunicare al mondo con la libertà che ogni autore merita, vent’anni fa ho smesso di lavorare con i magazine, dedicandomi ai libri fotografici e ai progetti istituzionali. Solo allora ho inteso di avere il pieno controllo del mio lavoro.
Il tuo mestiere è rivolto alla fotografia di paesaggio. Rispetto a questa condizione di crisi, pensi che sia cambiato l’atteggiamento del fotografo nei confronti della natura? Probabilmente oggi abbiamo un diverso coinvolgimento. I fotografi hanno sviluppato un senso critico nuovo rispetto agli anni Sessanta. Allo stesso tempo, devo dire che anche in passato la fotografia di paesaggio è stata molto influente. Per esempio, negli Stati Uniti è divenuta uno strumento politico per creare il sistema dei parchi nazionali. Non li chiamavamo né fotografi politici, né ambientalisti, ma l’influenza che hanno avuto è stata enorme.

Naturalmente oggi è cambiata la tecnica, e mai come in questo caso se ne deve parlare perché l’aspetto tecnologico ha avuto una parte importante nello sviluppo di questo genere. Oggi chi fotografa il paesaggio sì può approcciare al proprio lavoro in modi molto diversi. Pensiamo alle visioni dal satellite, ai droni, ai collage. Sono strumenti utili, e nuovi, per affermare la propria idea progettuale.
Uno dei tuoi lavori più interessanti è Urban Parks, tema particolarmente attuale quando parliamo di sviluppo urbano. In fotografia, la città è spesso rappresentata in modo molto spettacolare, pensiamo agli skyline e allo sviluppo verticale degli edifici. I parchi urbani, probabilmente per la loro staticità, sono la parte meno fotografata. In realtà, i parchi urbani sono il reale cuore culturale di una società urbana. Urban Parks è stato inizialmente commissionato dal National Geographic. Volevano un lavoro che raccontasse il modo in cui le persone utilizzano l’ambiente urbano. Poi, ho proseguito da solo il progetto perché desideravo cogliere come questi spazi fossero fondamentali per lo sviluppo culturale della società. Architetti e urbanisti hanno evidenziato l’importanza di avere una città sostenibile e i parchi urbani sono un aspetto molto critico e mai troppo affrontato.
Merrie Albion
Quando parliamo di riqualificazioni, possiamo assistere a effetti collaterali inaspettati e la storia può prendere una piega diversa da quella immaginata. Esatto. Un esempio è stato la Highline a New York che ha dato vita al boom del mercato immobiliare di tutta l’area. Pensiamo anche al Parc Güell di Barcellona, attraversato ogni giorno da un flusso impressionante di turisti. Sono conseguenze, più o meno volute, di una riqualificazione urbana.
Sono scenari a cui si deve guardare con una prospettiva storica. Nell’immediato è sempre difficile comprenderne la portata. Per questo il fotografo spesso riguarda il proprio archivio, dal quale può trarre elementi significativi che anni prima non aveva colto. Nel lavoro Merrie Albion, per esempio, hai affrontato l’interazione tra la cultura e il paesaggio, ma sono stati necessari anni per capire pienamente cosa raccontavano quelle fotografie. Merrie Albion, da cui poi ho tratto il libro Merrie Albion – Landscapes Studies of a Small Island, è una collezione di fotografie realizzate in quasi due decenni. Nell’immediato, non avevano una struttura. Ma anni dopo, riguardandole, ho capito che avevo vissuto momenti molti interessanti da un punto di vista politico e culturale. Ho così creato connessioni tra diversi elementi: la crisi economica, la sicurezza energetica, le questioni legate all’ambiente. Merrie Albion racconta di persone che, in anni diversi, sono accomunate da una particolare problematica.

La fotografia rimane, a tuo avviso, uno strumento utile e completo per registrare questo genere di cambiamenti? La fotografia resta impressa nella mente delle persone molto più a lungo dei video. Questo è stato ciò che mi ha motivato a utilizzare questo medium per documentare i momenti storici. Sono cresciuto con i libri fotografici, per cui ritengo sia importante lasciare un documento visivo della nostra epoca. Il mio obiettivo è di documentare ciò che stiamo vivendo in questi tempi interessanti. Poi ci sono concetti meno immediati, forse difficili da rendere in forma visiva, ma sicuramente importanti. Si pensi al digitale e all’idea che la digitalizzazione ha rotto gli equilibri tra le persone e il proprio ambiente. In realtà, con i lavori degli ultimi anni, ho voluto dire che possiamo ancora trovare un’interazione fisica tra le persone e il paesaggio. Guardiamo alle proteste politiche, ai festival, alle manifestazioni. Non si fa solo shopping online.
Di recente hai iniziato un progetto a Cuba dove, ancora una volta, il contesto ambientale è fortemente intrecciato con la politica, la cultura e la società. Penso che oggi questo sia un luogo molto interessante. Cuba è a un punto di svolta nell’economia, nella cultura e nella politica. Sono motivato ad andare oltre i soliti cliché. Ci sono molte domande aperte in questo momento su questo Paese e sulla sua società. Compito della fotografia, per lo meno della mia fotografia, è andarle a esplorare».
di Enrico Ratto

Simon Roberts

Simon Roberts

©Sandra Mickiewicz


Nato nel 1974 a Londra, risiede attualmente a Brighton. I suoi progetti analizzano la relazione tra il paesaggio e i concetti di identità e di appartenenza. Ha pubblicato quattro monografie che hanno goduto di ottima critica: Motherland (Chris Boot, 2007), We English (Chris Boot, 2009), Pierdom (Dewi Lewis Publishing, 2013) e Merrie Albion (Dewi Lewis Publishing, 2017).

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