25 Giugno 2020 di Redazione Redazione
Il numero delle pagine dei necrologi su L’Eco di Bergamo – più di venti al giorno – e le immagini strazianti dei carri dell’esercito che portavano in altre città le salme mostrano il segno di una lacerazione profonda che vede una provincia dilaniata da un dolore silenzioso. Non esiste famiglia che non sia stata toccata e travolta da questa tragedia. Chi rimane, oltre al pianto, si ritrova a dover vivere in una situazione surreale, fatta di addii mancati e di profondi vuoti. Fabio Bucciarelli, reporter che collabora con le più importanti testate nazionali e internazionali, raccontando i drammi del mondo, dalla Libia alla Siria, dal Sudan al Sud America, a marzo ha lavorato per il New York Times con l’obiettivo di testimoniare l’emergenza Covid-19. Le sue immagini hanno rivelato al mondo intero la tragedia della provincia di Bergamo.

Come è nato questo progetto? «Ho passato una decina di giorni a cercare di comprendere come documentare il Covid-19 e mostrare la pericolosità di questo virus. Fino a quel momento le immagini non descrivevano dall’interno la situazione – erano in maggioranza fotografie di spazi vuoti, piazze e strade deserte –. Non narravano le sofferenze delle persone e delle famiglie colpite dall’epidemia e non palesavano all’Italia e al mondo intero la reale minaccia. Ho sentito quindi l’esigenza di dare un volto e un nome a tutti i numeri che quotidianamente venivano dati. Dopo avere preso contatti con la Croce Rossa di Alzano Lombardo, ho spiegato le mie necessità e l’importanza di documentare dall’interno questa grande epidemia da un punto di vista relazionale ed empatico. Le mie richieste si sono sposate con le loro necessità».
Cosa ti ha colpito di più del lavoro dei volontari della Croce Rossa? «L’idea di collettività e di fraternità, l’unione di queste persone nella tragedia. C’è una frase molto interessante detta da un giovane volontario: “Se questa è una guerra e noi siamo i guerrieri, l’unica cosa che tiene i guerrieri salvi nella guerra è il sentimento di fratellanza”. Mi ha colpito moltissimo anche il coraggio, l’umanità e la forza delle famiglie nell’affrontare questa pandemia. Il virus è un nemico invisibile. È il virus della solitudine, che è il grave dramma di tutto ciò. La solitudine delle persone anziane, la solitudine dei malati in ospedale, la solitudine dei famigliari che non possono andare a trovarli. Le persone muoiono da sole e, a questo, si aggiunge la mancanza di un degno funerale».
Sei abituato a documentare zone di conflitto in cui si ha a che fare anche con la paura. Avevi paura in questo caso di essere contagiato? «Seguire i protocolli di sicurezza è assolutamente necessario per ridurre al minimo il rischio. Documentare una zona di conflitto è differente dal realizzare un reportage sull’epidemia. È importante avere paura in queste situazioni perché è proprio la reazione alla paura che aiuta a essere più lucidi. Diffida di quelli che in guerra dicono di non averne. La differenza è come si reagisce a questo sentimento. In territori di battaglia ci sono molte situazioni in cui il rischio è elevato, non solo nelle front line. Più che la paura, in questo lavoro ha prevalso la difficoltà emotiva. Si tratta di situazioni in cui si vive il dolore dell’isolamento e dell’abbandono».
Dramma di Bergamo - © Fabio Bucciarelli

© Fabio Bucciarelli

Quali protocolli hai dovuto seguire? «Nelle case e negli ospedali la possibilità di contagio è molto alta, serve quindi seguire un iter preciso riguardo le misure di sicurezza. Nel documentare questa pandemia, il discorso sulle misure di protezione per tutelare te stesso e la gente intorno è fondamentale. Il protocollo prevede una tuta intera, doppi guanti, occhiali e mascherina. Ho utilizzato degli occhiali in plexiglass e una mascherina con filtro P100 con protezione superiore rispetto alle FP2/FP3. Anche per svestirsi c’è un protocollo da seguire: prima si toglie un paio di guanti, poi si lavano le mani con amuchina tenendo ancora il primo paio di guanti. Ci si sfila la tuta senza toccare la parte esterna perché potrebbe essere infetta, quindi, dall’interno verso l’esterno, si prosegue levando gli occhiali e la maschera, si disinfettano poi le scarpe e l’attrezzatura. E infine si toglie l’ultimo paio di guanti, disinfettandosi nuovamente le mani e indossando dei guanti puliti. Sono stato anche negli ospedali e a contatto con le forze dell’ordine deputate allo spostamento delle bare. C’è stato un lavoro giornalistico molto importante da parte di tutto lo staff del New York Times a partire dal tempo datomi dalla redazione per la realizzazione del progetto».
Quali parole chiave hanno accompagnato questo lavoro? «La relazione empatica. Ogni situazione è differente, ma il rispetto per i soggetti fotografati è un fattore che accompagna tutte le mie fotografie, dalle breaking news ai reportage d’approfondimento. Per realizzare immagini e colpire il lettore serve vicinanza emotiva. Tutte le persone incontrate hanno dimostrato coraggio e interesse nel mettersi in gioco per un bene collettivo: mostrare al mondo i rischi e i pericoli di questo virus. Ho passato molto tempo a parlare con le famiglie spiegando nel dettaglio di cosa trattasse il mio lavoro e come intendevo procedere. Si entra negli spazi privati, nell’intimità della gente e si deve rispettare la loro privacy. Terminato il lavoro di documentazione, facevo firmare una liberatoria».
Nelle stesse settimane in cui hai lavorato a questo progetto sei stato insignito del secondo premio nella categoria General News, Stories della 63esima edizione del World Press Photo. «Si tratta di un lavoro che ho sviluppato in Cile negli ultimi mesi del 2019. Nell’ultimo anno e mezzo sono stato in Messico, in Brasile e ho viaggiato molto nella zona dell’America Centrale. Il lavoro premiato riguarda gli scontri in Piazza Santiago e la lotta contro il sistema neoliberale, contro la Costituzione vigente – è ancora quella di Pinochet – e le privatizzazioni. Questo, negli anni, ha creato moltissime diseguaglianze di classe, scoppiate in una rivolta. Ho cercato di documentare la storia non solo da un punto di vista mediatico di news, ma cercando di portare alla luce le ragioni di questa rivoluzione in atto».

Fabio Bucciarelli

Fabio è un fotografo, giorna- lista e autore italiano riconosciuto internazionalmente per i suoi lavori nelle zone di conflitto e sulle conseguenze umanitarie delle guerre. Negli ultimi dieci anni ha documentato gli eventi centrali della storia contemporanea in Medio Oriente, Africa, Europa e in Centro e Sud America. I suoi reportage sono stati insigniti dei più importanti premi internazionali fra i quali la Robert Capa Gold Medal, il World Press Photo, il Picture of the Year, il Prix Bayeux- Calvados for War Correspondents e il Sony International Photography Award. Il suo libro The Dream(FotoEvidence, New York, 2016) è stato scelto fra i migliori fotolibri dell’anno dal Time Magazine. Oggi Bucciarelli lavora per l’editoria internazionale e come direttore artistico per musei e istituzioni italiani. Le sue fotografie sono esposte in gallerie e fiere d’arte in tutto il mondo.

di Raffaella Ferrari
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