28 Giugno 2020 di Redazione Redazione
Fotografare la disperazione lontano da casa nel tempo diventa cosa semplice, ci si può abituare, si erigono difese e dopo si ritorna, spesso a centinaia di chilometri di distanza. Nel caso dell’ospedale di Pesaro non c’era nessuna geografia a salvarmi. Quella disperazione stava a 100 metri (letteralmente) da casa mia, riguardava amici di infanzia, volti conosciuti. Condividere il senso di impotenza dei medici che fotografavo mi ha permesso di vedere la fragilità della nostra esistenza e di scoprire come tutti siamo vittime della paura di morire, prima ancora che della malattia. Documentare il lavoro del personale sanitario è stato il mio modo per vincere l’angoscia che mi provocava l’incertezza, l’ignoto. Volevo andare incontro all’origine di quella paura e capire quanto più possibile il problema, che volto avesse, che nome avesse.

Le origini

Il primo ricordo legato alla fotografia è un’immagine mai scattata: quella della discussione tra mio padre e mio zio, bravo cineasta e fotografo amatoriale, sull’opportunità di regalarmi una macchina fotografica per il mio undicesimo compleanno. Li ricordo davanti alla porta-finestra della sala che confabulavano. Lo zio cercava di spiegare al fratello che avere una macchina tutta mia mi avrebbe fatto bene. Non avevo mai pensato alla fotografia come a una professione. D’estate lavoravo nella bottega di un fotografo di Pesaro tra camera oscura, riflessioni sulla fotografia e le chiacchiere degli avventori sul mondo. Finiti gli studi superiori, pensai che mi sarebbe piaciuto viaggiare e fotografare, che mi sarei sentito libero e felice se lo avessi fatto, ma non avevo assolutamente idea su come questo avrebbe potuto darmi da mangiare. Fu l’incontro con Alex Majoli nel 1994 ad avvicinarmi in qualche modo al mestiere, alla professione di fotografo. Prima di allora la fotografia era per me un bisogno, non tanto di fare delle foto, questo l’ho scoperto molto tempo dopo, ma di vivere, fuggire e raccontare. Dai progetti con Alex, dalle fantasie, alla nostra casa – abbiamo convissuto per sette anni – sono passato al mondo delle agenzie, alla Grazia Neri.

All’angolo di Calle Maipù nel centro di Buenos Aires, 2005 © Alberto Giuliani

All’angolo di Calle Maipù nel centro di Buenos Aires, 2005 © Alberto Giuliani

Riflessioni

Il momento fotografico che non dimenticherò mai è la solitudine accompagnata dalla forza delle ideologie. È una condizione che vivevo da ragazzo, a ogni passo, e che trovava il suo culmine nei miei viaggi in luoghi remoti a cercare chissà che… Nel nulla cercavo qualcosa da fotografare, trovando solo me stesso. Quella particolare condizione della fotografia e dell’io, è stata per me fondante, e credo sia purtroppo irripetibile. La fotografia mi ha insegnato a seguire l’istinto e a cercare la sintesi. Mi ha aiutato a capire il mondo dal basso, dalla strada. Guardo con nostalgia ogni passo fatto per le strade del mondo nelle quali eravamo solo io, la macchina fotografica e ogni possibilità della vita. Mi ha fatto sentire protetto dalla mia ansia, dalle mie paure, aiutandomi ad affrontarle. Mi ha fatto anche capire che parlare ha senso solo se si ha davvero qualcosa da dire. Che l’estetica è come la moda. Espressione di un tempo, molto importante o per nulla, a seconda della nostra sensibilità. Ma tutti abbiamo invece bisogno di vestirci.
 Una coppia nel cuore della notte, all’ingresso di un condominio di Barrio Norte, Buenos Aires, Argentina, 2007 © Alberto Giuliani

Una coppia nel cuore
della notte, all’ingresso di un condominio di Barrio Norte, Buenos Aires, Argentina, 2007 © Alberto Giuliani

Ci sono state diverse situazioni, accadute in luoghi diversi del mondo, davanti alle quali ho sentito il limite della fotografia. In quei momenti avrei voluto raccontare ciò che mi veniva detto: la fotografia era un linguaggio non sufficiente. Davanti a questa frustrazione, ho sentito il bisogno di scrivere. Lo facevo per me, perché il rispetto che nutro per la scrittura è molto alto e io mi sono sempre sentito inadeguato. Grazia Neri mi disse una cosa fondamentale che al tempo accolsi male: “Nella fotografia tu non diventerai mai nessuno perché fai troppe cose”. Un mio difetto. Oggi lo considero un’opportunità. Il mio atteggiamento caratteriale si è rivelato, negli anni, una grande risorsa. Possibile che porti con sé una dose di superficialità che mi fa surfare sulle cose. La mia curiosità nei confronti di diversi linguaggi si è rivelata una dote che mi ha permesso di fare esperienze lavorative diverse: scrivere, realizzare foto e video. Non c’è un linguaggio o esperienza che ami più di un’altra. Insomma, il mio dato caratteriale si sposa bene con il nostro tempo.Realizzo riprese video e fotografiche, uso delle parole, esercito la scrittura, ho imparato a gestire linguaggi fondamentali per le aziende. Questo mi ha permesso di diventare una risorsa utile. Spesso mi capita di mettere insieme contenuti con immagini fatte da altri.
Mi sembrano più belle le foto dell’inizio della mia carriera di quelle che scatto ora. Un percorso che associo a un invito di Majoli a non lavorare per i giornali perché ti sporcano gli occhi. In qualche modo aveva ragione, perché i magazine – non tutti – impongono un’estetica e una visione. Ma, per stare dentro un mercato, qualunque esso sia, ci si deve adattare a un sistema di regole. Queste regole possono cambiare la nostra visione. Sono certo che abbiano cambiato la mia.

Alberto Giuliani

Fotografo, scrittore, videomaker. È stata la curiosità che lo ha spinto a esplorare il mondo, sé stesso e il suo passato attraverso l’obiettivo. La curiosità lo ha condotto verso la scrittura. Gli interessa raccontare, il linguaggio è secondario al soggetto o alla ragione della narrazione. Tra i suoi libri fotografici, Malacarne del 2010, una ricerca sulla criminalità organizzata e Gli Immortali, edito da Il Saggiatore nel 2019, un viaggio intorno al mondo alla ricerca di possibili futuri dell’umanità.
A cura di Livia Corbò
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