13 Ottobre 2020 di Redazione Redazione

L’impegno sociale e culturale nutre lo sguardo di Massimo Barberio, da sempre al fianco di ONG e collettivi di società civile. Fotografia e vita corrono su strade che spesso s’incontrano nelle trame di racconti che l’autore vive da vicino e con grande trasporto. Consapevole dell’importanza della testimonianza diretta nell’informazione, il suo approccio si distingue per la riflessione sul significato, sulla percezione e sulla fruizione.

L’Intervista

“The Neverending Story” inaugura la tua produzione fotografica basata sul dialogo con organizzazioni che lottano ogni giorno per i diritti civili dei più deboli. Come hai intrapreso questo percorso? In maniera molto ingenua. Avevo un accesso ai luoghi e mi sono fatto bastare quello. Dopodiché, ho riflettuto sul fatto che le storie capitino solo a chi le sa raccontare e allora ho imparato a raccontarle, sul campo, con tanti errori e grazie a una quantità di incontri e scoperte che mi hanno formato giorno dopo giorno. Con questo lavoro ho portato l’attenzione sul caso di una vecchia scuola occupata nel centro di Bari chiamata Socrate. Qui hanno trovato una casa oltre 130 rifugiati politici che chiedevano di aver riconosciuti i loro diritti. Sorridendo, posso dire che questo è stato il mio tirocinio. Infatti, ho imparato moltissimo anche rispetto a come portare quello che stavo facendo a un altro livello, più professionale. Ho capito che ogni errore era in realtà un mio limite e superarlo mi avvicinava sempre di più al ruolo di fotografo, oltre che agli altri e alla restituzione di quanto mi avevano dato, fidandosi di me.

Oria, estate 2016. Un manifestante durante un sit-in di protesta contro l’eradicazione degli ulivi dovuta all’emergenza Xylella. © Massimo Barberio

Oria, estate 2016. Un manifestante durante
un sit-in di protesta contro l’eradicazione degli ulivi dovuta all’emergenza Xylella. © Massimo Barberio

Nella tua produzione hai riservato molta attenzione ai movimenti di piazza e di espressione politica e collettiva. Che significato hanno per te questi eventi? Ho documentato quasi duecento manifestazioni, da Trieste a Reggio Calabria, e poi anche in Europa: dai sit-in di letteralmente quattro persone per le emergenze abitative alle centinaia di migliaia di Roma del 2003, dalle proteste pacifiche e creative degli ambientalisti – chiusura dell’Ilva e movimento No Tap – a quelle più violente – Istanbul 2013 e Grecia 2018 – e poi tutti i movimenti di piazza italiani fino al 2015. Saper leggere le manifestazioni collettive ci dovrebbe indirizzare verso una produzione d’informazione più consapevole, cosa che spesso manca. La piazza è indice di una società che ha bisogno di rivendicare e finalmente di affermarsi, lontano dalle raccolte di dati e dai consumi di ogni giorno. La piazza diventa quindi uno strumento potente per analizzare lo stato delle democrazie e dei diritti civili. In questi casi percepiamo davvero la fotografia come un’arma, lontana da altri suoi ruoli. Bisogna ricordare però che se troppo spettacolarizzata, ci si ritorce contro; finisce per essere videoclip o espressione del potere e quindi propaganda o storytelling di uno slogan e non più delle persone.

L’ultimo tuo lavoro nasce dalla collaborazione con Medici Senza Frontiere per raccontare il campo profughi per minori a Moria sull’isola di Lesbo. Come hai affrontato un tema così poco dibattuto e delicato? Terminata l’emergenza del 2016 tutto è tornato silente, per molto tempo. Anni in cui migliaia di persone sono state private dei diritti, perfino della speranza. A metà tra un inferno e un manicomio a cielo aperto, è stato difficile orientarsi a Moria, nel campo profughi che, pur potendo ospitare tremila persone, ne contiene attualmente novemila, in buona parte minori con gravi traumi e disturbi psichiatrici. Ho seguito gli operatori di MSF, cercando di restituire le loro emozioni. Noi europei abbiamo attuato un percorso di negazione totale – far vedere un punto di vista più assimilabile, poteva magari funzionare –. Dopo la pubblicazione del lavoro It’s just another day si è messa in moto nuovamente l’opinione pubblica. Persistono delle condizioni tragiche, ma sono stati riservati più fondi e più assistenza. Nulla di risolutivo, ma ho imparato che tutto conta per chi non ha più niente.

Che valore dai alla documentazione dei fatti storici? Come credi sia cambiata la sua fruizione attraverso i nuovi canali di informazione, da Internet ai social network? La fotografia è uno strumento potentissimo, atto a costruire una memoria collettiva. Per questo abbiamo un ruolo così importante nella comunicazione. Inoltre, la maniera in cui costruiamo i racconti è la stessa da millenni, ma si veicola secondo le possibilità proprie del tempo in cui accadono. Nuovi racconti portano a nuove narrative e quindi a ridiscutere la maniera in cui se ne fruisce. Internet e i social sono un mezzo incredibile per la disseminazione e per la conoscenza di nuovi fatti che diventeranno poi storia.

Isola di Lesbo, Grecia, settembre 2019. Namatullah mostra il selfie scattato in quella che è la food line nel campo profughi di Moria – l’accesso è interdetto alla stampa –, in quelle che sono vere e proprie gabbie. Un’ulteriore umiliazione per le quasi 13.000 persone che affollano il campo, private di ogni diritto © Massimo Barberio

Isola di Lesbo, Grecia, settembre 2019. Namatullah mostra il selfie scattato in quella che è la food line nel campo profughi di Moria – l’accesso è interdetto alla stampa –, in quelle che sono vere e proprie gabbie. Un’ulteriore umiliazione per le quasi 13.000 persone che affollano il campo, private di ogni diritto © Massimo Barberio

In cosa sei impegnato attualmente e quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro? Lo scorso febbraio sarei dovuto partire per realizzare la documentazione di una nuova missione di MSF, ma un incidente prima e il lockdown dopo mi hanno fermato. È stata la scusa giusta per iniziare a lavorare con altri fotografi, dapprima alla realizzazione di un libro, poi alla fondazione di un collettivo culturale. Un lavoro lontano dal campo delle immagini prodotte, ma perfettamente calato nei contesti di accrescimento di fruizione e consapevolezza».

Massimo Barberio

Fotografo che concentra il suo lavoro su progetti a lungo termine di documentazione sociale. Negli ultimi anni ha esposto nei maggiori festival del mondo, tra cui: Lumix festival for Visual journalism-Hannover, Photokina-Koln, Bayeux Calvados, Foto8 Summershow-Londra, AOPS, LaBiennale di Venezia, Terry O’Neill Tag Award exhibition, Encontros da Imagem, Lucie Foundation-New York e Los Angeles, Kolga Tbilisi Photo-Georgia, Bursa Photo Festival-Turchia. Sue fotografie sono presenti in collezioni private e museali. Tiene corsi di narrazione visiva e fotogiornalismo.

di Michela Frontino

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