25 Luglio 2020 di Redazione Redazione

A chiunque sarà capitato almeno una volta di osservare la vita degli altri dalla propria finestra. Chi non ha mai fantasticato sull’idea di poter varcare le pareti dei palazzi di fronte? Gail Albert Halaban ha tradotto in immagini i nostri innocui istinti voyeuristici. Da anni la fotografa americana indaga le relazioni che si creano in un contesto urbano attraverso le finestre. Relazioni che in questo momento storico sono più che mai fondamentali. La quarantena ha fatto sì che la nostra attenzione si spostasse sempre più verso l’interno. In Italia, in modo particolare, le mancate relazioni sociali dell’ultimo periodo sono state spesso colmate dal forte senso di comunità che ha investito i quartieri di tutto il Paese. Dalle canzoni sui balconi alle manifestazioni luminose, agli appuntamenti televisivi, la quarantena ha chiarito quanto dipendiamo da quei rapporti che la fotografa statunitense da tempo osserva.

Sunlight, Istanbul © Gail Albert Halaban

Sunlight, Istanbul © Gail Albert Halaban

L’intervista

È molto importante per te entrare in relazione con le persone che decidi di fotografare nei loro ambienti. Come hai instaurato questi rapporti nelle diverse parti del mondo? «Ogni persona è diversa, può dipendere anche dal Paese e dalla cultura. Ho trovato calore e accoglienza in Italia, dove spesso ho ricevuto inviti a entrare in ambienti familiari privati per una chiacchierata e sorseggiare un bicchiere di vino. Inoltre, ho notato che lì, in molti casi, la gente già conosceva i propri vicini. In ogni luogo ho instaurato legami e creato contatti in maniera differente, spesso avendo una o più persone del posto che mi hanno aiutato, facendo da tramite. Se a New York ho avuto la possibilità di lasciare un messaggio al portiere di alcuni edifici e spiegare così il progetto, in altre città ho avuto il supporto di amici, galleristi, curatori che hanno fatto partire il passaparola. Ho realizzato che non importa quanto lontano sei, tutti svolgiamo le stesse attività quotidianamente. Se si guarda in una finestra si possono vedere gli inquilini bere una tazza di caffè al mattino, accarezzare il cane, leggere le favole della buona notte ai bambini».

Pensi che i tuoi progetti abbiano avuto un impatto sociale e reale nella vita delle persone che hai fotografato? «Certamente! Una volta che le persone incontrano i loro vicini si innesca una scintilla e si instaurano delle relazioni a lungo termine. Il mio vicino, per esempio, mi ha appena chiesto del lievito per cuocere il pane – un prodotto che è difficile da reperire a New York durante l’emergenza Covid –. È molto importante avere un rapporto di scambio e di solidarietà con chi abita accanto a noi».

Moving, San Marco, Venice, October 2017 © Gail Albert Halaban

Moving, San Marco, Venice, October 2017 © Gail Albert Halaban

Hai scattato alcune immagini in remoto, molto prima che questa modalità divenisse di tendenza. «Esatto. Solitamente mi reco fisicamente sul posto, ma ci sono stati dei momenti in passato in cui non potevo viaggiare. Mi sono quindi organizzata per dirigere la scena e pianificare le mie immagini a distanza. Mi trovavo a New York quando ho realizzato alcuni scat- ti nella capitale francese. È stato certamente più complesso, ma si è trattato di un vero lavoro di squadra. Mi sono collegata via Skype con gli inquilini, che a loro volta erano in contatto con i vicini. Così, ho potuto guidarli mentre posizionavano la macchina fotografica di fronte alla propria finestra e assistere a ciò che accadeva nell’appartamento di fronte per creare un vero e proprio set a metà tra una messa in scena e un estratto dal quotidiano».

Da dove nasce l’idea di Out My Window? «Sul finire degli anni Novanta assistevo Julius Shulman e con lui ho fotografato una serie di case moderne di Los Angeles e Palm Spring risalenti agli anni Cinquanta. In quell’occasione ho sviluppato la mia attenzione nei confronti degli interni visti attraverso le finestre. Tuttavia, l’episodio che ha acceso in me l’idea per i miei progetti fotografici è avvenuto durante uno dei compleanni di mia figlia. I vicini ci spedirono dei fiori con un biglietto che diceva: “È un piacere vedere tua figlia crescere! Congratulazioni!”. Io non li conoscevo, né li avevo mai incontrati, ma loro stavano osservando la nostra festa di compleanno attraverso la finestra».

Cobble Hill, Brooklyn Snow, 2007 © Gail Albert Halaban

Cobble Hill, Brooklyn Snow, 2007 © Gail Albert Halaban

Qual è stata la tua prima fotografia scattata da una finestra? Si è trattato di uno scatto spontaneo? «Tutti gli ambienti che scelgo sono veri appartamenti e i soggetti che fotografo ne sono i reali inquilini. Non ho mai usato modelli o attori. Ho iniziato i miei progetti chiedendo alla gente cosa vedessero dalle loro finestre e in seguito decidevo di incontrarli e di mettermi in contatto con i loro vicini di quartiere. La prima fotografia l’ho realizzata nel 2007 dal mio appartamento, a Brooklyn. Rappresenta una giovane coppia con una neonata. È notte e fuori nevica. In quel momento mi è sembrato così familiare guardarli, la loro famiglia mi ricordava la mia».

Al momento di cosa ti stai occupando? «Attualmente mi sto concentrando su un progetto legato ai cosiddetti Third Places, centri di aggregazione sociale come le biblioteche, le chiese e i club. In questo caso voglio riferirmi a piccoli business locali come caffè, bar, negozi di alimentari e ristoranti della zona. Da tempo sto cercando di fotografare questi luoghi dove sentiamo e creiamo spontaneamente il senso di comunità. Essendo un’accanita osservatrice della vita attraverso le finestre, nel corso degli anni ho potuto notare i cambiamenti nella vita delle persone. Mi sono resa conto che la gente passa più tempo a casa. Non so se è solo il mio quartiere o i miei amici, ma molte attività sono state privatizzate. Cose che prima facevamo fuori, adesso le facciamo in casa. Sempre più persone si stanno allontanando dal centro urbano per lo stesso motivo. Ciò si ripercuote su queste piccole imprese, che molto probabilmen- te dovranno chiudere a causa del forte impatto economico. La quarantena ha accelerato completamente questa svolta verso l’in- terno. Ora che siamo tutti a casa, la vita sociale è scomparsa dallo spazio pubblico e ha dato una nuova direzione al mio lavoro».

Quai Anatole, Paris 7, 26 septembre 2013 © Gail Albert Halaban

Quai Anatole, Paris 7, 26 septembre 2013 © Gail Albert Halaban

Gail Albert Halaban

Gail nasce a Washington DC nel 1970. Frequenta la Rhode Island School of Design, la Brown University e la Yale University, dove consegue un Master in Fine Arts Photography. È stata pubbli- cata su The New Yorker, The New York Times Magazine e Le Monde. Numerose gallerie in tutto il mondo hanno esposto i suoi lavori a parti- re dalla Edwynn Houk Gallery di New York. Nel 2019, Out My Window Global è presentato in Italia dalla galleria Podbielski Contemporary, a Milano, mentre Aperture Foundation pubblica la terza monografia dell’artista. Parallelamente insegna nel Narrative Medicine Program della Columbia University Medical School. Le sue opere sono conser- vate in collezioni pubbliche e private, tra cui la Hermes Foundation, il George Eastman Museum, la Yale University Art Gallery.

di Silvia Carapellese

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