19 Settembre 2020 di Redazione Redazione

La palma d’oro di Photographer of the Year è andata quest’anno al lavoro del fotografo uruguaiano Pablo Albarenga, che combina in sé molti generi: paesaggio, ritratto, documentazione, arte. Questi dittici colpiscono per i temi trattati, per l’originalità geometrica di equilibri e forme e per le inquadrature perpendicolari ottenute da un drone. Esteticamente seducenti, rimandano a sensazioni ancestrali ed esplorano il legame degli indios con la terra.

Seeds of Resistance, la dichiarazione dell’autore

«Quando pensiamo all’Amazzonia, noi persone sensibili ai temi ambientali, noi occidentali, noi abitanti delle città abbiamo sempre una visione che è funzionale ai nostri bisogni, alla società che ci ha formati. Pensiamo che quella terra sia anche nostra, e in parte lo è. Siamo convinti che sia il polmone verde del mondo, e naturalmente lo è. Ma prima di tutte queste definizioni importanti, la foresta è la casa delle persone che la abitano. Ho avuto l’immenso privilegio di conoscere e di frequentare quei popoli e di capire quanto siano sbagliati i nostri ragionamenti. Noi pensiamo agli animali da salvare, agli alberi che producono ossigeno per tutto il pianeta, all’ecosistema da proteggere perché un disequilibrio sarebbe avvertito anche in Europa o in Australia, ma non pensiamo mai ai suoi abitanti tradizionali. Per gli indigeni, l’Amazzonia è la casa, la scuola, la farmacia, il supermercato, è il sistema che li tiene in vita e dal quale ricavano ogni cosa di cui necessitano nel quotidiano. Questo luogo fragile e bellissimo, che rifiutano di abbandonare perché custodisce le spoglie dei loro avi, è prima loro, poi nostro. Questa è la parte fondamentale del mio messaggio. Bisogna anteporre a ogni esigenza il rispetto di quelle genti, di ogni singola persona, altrimenti nulla avrà un senso».

Drica Parà, Brasile / © Pablo Albarenga

Drica è la prima donna eletta Coordinatore del Territorio di Quilombola e rappresenta le cinque comunità che vivono nell’Amazzonia brasiliana. La loro prima sfida sono i taglialegna desiderosi di concludere accordi con loro. Poi c’è la miniera di bauxite lungo il fiume che sta costruendo dighe che mettono a rischio l’ecosistema. Per lei, la minaccia più grande è un enorme progetto di diga idroelettrica sponsorizzato dal governo che distruggerà l’ambiente e allontanerà le comunità dalla terra natale. / © Pablo Albarenga

«Ho iniziato questo progetto nel 2018 lavorando con le popolazioni brasiliane, poi mi sono spostato in Colombia, Venezuela ed Ecuador. Fin dal principio ho compreso che le mie fotografie non spiegavano bene l’ancestrale connessione tra l’uomo e il paesaggio che lì avevo osservato da vicino. L’Occidente ha un legame differente con l’ambiente: noi sentiamo di aver avuto successo quando conquistiamo nuovi spazi e non siamo realmente attaccati alla terra che ci ospita. Ero frustrato perché non riuscivo a tradurre con le immagini quello che avevo scoperto. Ho dovuto uscire dal mio mezzo espressivo, abbandonare la fotocamera e affidarmi all’uso dei droni. Non avrei mai pensato di farlo, credetemi. Vedevo questi strumenti più adatti a raccontare la pubblicità o il cinema, ma ho scoperto che mi servivano a creare delle metafore. Per arrivarci ho cambiato molte volte. Ho sbagliato, ho sperimentato, finché ho trovato la chiave di lettura. Questi dittici composti da un ritratto accostato a un paesaggio sono una sintesi della mia testimonianza visiva. Pongono l’accento su quanto la deforestazione proceda di pari passo con la stessa distruzione di ogni comunità. Il territorio che racconto, interessato da intense attività minerarie, da commercio agricolo e disboscamento, sta in bilico su equilibri precari. Gli attivisti e i maestri di vita che lì ho conosciuto rischiano ogni giorno di essere uccisi o feriti nel tentativo di difendere sia i luoghi che le persone».

«Voglio dirle una cosa alla quale tengo molto: la storia che ho raccontato è decisamente più importante di me. Vincere uno dei più ambiti premi internazionali di fotografia è stato complicato. Non parlo degli sforzi e del percorso fino alla vittoria, quegli aspetti sono comuni a tutti gli autori. Intendo che è stato difficile sostenere in seguito tutta questa esposizione mediatica, le interviste, gli inviti. Io non so gestire queste cose… Ma sono grato, e vincere mi ha regalato dei motivi per proseguire la mia indagine. Mi interessa moltissimo portare il messaggio a quante più persone possibili e sensibilizzare sempre più le nostre coscienze lontane. La fotografia è una scusa, è il mezzo che ho scelto per arrivare alla gente e a tutto quello che mi hanno insegnato laggiù. Ho costruito con loro delle relazioni personali molto strette, di amicizia e di affetto profondi; li chiamo per nome anche nei miei ritratti. Ho intenzione di tornare in Amazzonia e portare avanti ciò che ho cominciato, scavando più a fondo o spostando l’attenzione su altre tematiche e questo premio e la conseguente notorietà mi hanno dato l’opportunità di farlo negli anni a venire. In un momento così difficile per tutto il mondo dovuto alla diffusione della pandemia, non dobbiamo dimenticare i problemi che affliggono i più deboli. Non posso negare che sono anche molto contento che il Sony World Photography Award sia arrivato in America Latina, un continente raccontato per decenni da occhi stranieri e che ora ho la possibilità di spiegare dal suo interno, cercando collaborazioni con altri fotografi per regalare una nuova voce alla storia dei nostri Paesi».

di Barbara Silbe

Chi è Pablo Albarenga

Montevideo, 1990. Pablo è un fotografo documentarista e narratore visivo che indaga questioni relative ai diritti umani in America Latina. È anche un esploratore del National Geographic e un beneficiario del Pulitzer Center. Ha dedicato il suo lavoro a stu- diare e a fotografare il processo di colonizzazione che sta ancora colpendo le popolazioni tradizionali in America Latina. Molte comunità sono minacciate da enormi progetti di sviluppo che mirano a sfruttare le risorse naturali disponibili nei loro territori. Ha fotografato gli indigeni Guarani Kaiowá che stanno combattendo per recuperare le loro terre nello stato del Mato Grosso do Sul in Brasile e i grandi campi indigeni di Brasilia, dai quali oltre 3.000 leader del Paese si spostano nella capitale per rivendicare i loro diritti. Inoltre, ha documentato il viaggio di Sonia Guajajara, prima donna indigena candidata alla vice presidenza del Brasile alle elezioni generali del 2018.

Puoi trovare l’intervista a Pablo Albarenga e altri scatti su IL FOTOGRAFO #325, in edicola o in versione digitale qui.

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