2 Agosto 2019 di Vanessa Avatar

Trecentottanta dollari. È il prezzo di una scatola che può trasformarsi in un tesoro, se al suo interno si scoprono fotografie di rara bellezza. Trecentottanta dollari è la cifra che ha cambiato per sempre la vita di John Maloof, giovane rigattiere e scrittore in erba, che nel 2007 acquista a un’asta una scatola di negativi, presentati come “scatti su Chicago”. Maloof sviluppa e scansiona i negativi trovati imbattendosi nel lavoro di una persona dallo sguardo acuto e inconsueto, che immediatamente rapisce la sua curiosità. Da qui inizia un viaggio alla ricerca di Vivian Maier, questo il nome della fotografa, che condurrà a scoperte inaspettate – come mostra l’appassionante documentario uscito nel 2014, Alla ricerca di Vivian Maier , di John Maloof e Charlie Siskel –. La prima, la più clamorosa, riguarda l’identità dell’autrice: Vivian Maier non era una giornalista o una fotografa professionista, bensì una bambinaia che lavorò al servizio di famiglie benestanti di New York e di Chicago sin dai primi anni Cinquanta. Quando Maloof cerca di mettersi in contatto con lei, nel 2009, è troppo tardi: la Maier si è spenta proprio qualche giorno prima. Un incontro mancato che costellerà di dubbi il viaggio, rendendolo sempre più impervio. Pian piano rintraccia le persone che l’hanno conosciuta in vita: i bambini da lei cresciuti, oggi adulti, e i datori di lavoro che la descrivono come una persona riservata, solitaria, misteriosa, a tratti eccentrica, inseparabile dalla sua Rolleiflex.

Vivian Maier ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro

Per oltre cinque decadi Vivian Maier ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro. Ciò che ha lasciato è un archivio sterminato, con più di 150.000 negativi, una miriade di pellicole non sviluppate, stampe, film in super 8 e 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti di vario genere che la tata accumulava nelle stanze in cui si trovava a vivere, custodendo tutto con grande gelosia, ai limiti del patologico. Vivian Maier ha scattato per lo più nel tempo libero, l’ha fatto in maniera sistematica e assai prolifica, come se fosse stata animata da una volontà instancabile di collezionare la realtà che la circondava. I suoi soggetti prediletti si trovavano in strada ed erano gli umili, gli emarginati, le signore ricche ed eleganti, gli amanti, i bambini, le ombre, i riflessi, le simmetrie: le interessavano fatti bizzarri e incongruenti, la miseria degli esseri umani, tutto ciò che rivelava sentore di follia e allo stesso tempo era capace di uno sguardo benevolo, tenero, ironico e accogliente. Talvolta puntava l’obbiettivo verso di sé. Come osserva Alessandro Baricco (La Domenica , La Repubblica , 9 marzo 2014,) «l’unico soggetto a cui abbia dedicato ripetuti ritratti, inaspettatamente, è se stessa: si fotografava riflessa nelle vetrine, negli specchi, nelle finestre. L’espressione è tragicamente identica, anche a distanza di anni: lineamenti duri, maschili, sguardo da soldato triste, una sola volta un sorriso, il resto è una piega al posto della bocca. Impenetrabile, anche a se stessa». Se il soggetto cambia, lo stesso non si può dire per il risultato: sempre stupefacente e affascinante. Vivian Maier era un’artista. E se Maloof non fosse incappato in quella benedetta scatola da trecentottanta dollari con ogni probabilità non lo avremmo mai saputo. Ma lei ne fu consapevole? Questo punto rimarrà per sempre sospeso, un mistero irrisolvibile, così come la sua vita e la sua arte.

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