24 Febbraio 2020 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

Fotoreporter e guida naturalistica, da oltre dieci anni Davide Pianezze organizza viaggi fotografici in giro per il mondo, andando alla ricerca di luoghi “incontaminati” che possano regalare a lui e alle persone che accompagna emozioni non scontate. Perché, come ci racconta, l’aspetto che gli dà maggiore soddisfazione è poter far tornare un po’ bambini i fotografi che lo seguono, «vedere quell’espressione di stupore che spesso si perde da grandi. La magia si ripete ogni volta che incontriamo situazioni straordinarie, uniche, ed è in quei momenti che anch’io non posso fare a meno di impugnare la macchina fotografica, scattare e tornare un po’ bambino».
Davide, cosa significa per te fotografare? Nel momento in cui prendo in mano la macchina fotografica cambia il mio approccio con ciò che mi circonda. Il rapporto con ogni soggetto diventa più intenso, intimo. Inoltre, per me fotografare ha spesso rappresentato un mezzo (a volte un pretesto) per approfondire argomenti che difficilmente avrei avuto modo di conoscere se non come spettatore. Per esempio, grazie alla fotografia ho avuto l’opportunità di lavorare al fianco di un geologo sulle Ande argentine per studiare gli effetti delle azioni vulcaniche, ho imparato le complesse manovre necessarie per sostituire i radiocollari ai leoni in Botswana e mi sono trovato a scavare tra le falesie mongole, in compagnia dei paleontologi, per dissotterrare ossa pietrificate di dinosauri.
Come e quando hai iniziato a organizzare viaggi fotografici? Il primo risale al 2007 in Mongolia. Un tour operator italiano interessato al progetto editoriale al quale stavo lavorando (che si è poi concretizzato con la pubblicazione del libro fotografico Mongolia) mi ha proposto di collaborare all’organizzazione di un viaggio fotografico nel Paese centrasiatico. Per indole tendo ad accettare ogni proposta che rappresenti una novità, così mi sono ritrovato a girovagare per le steppe al fianco di un gruppo di entusiasti viaggiatori fotografi. Rientrato in Italia, ho iniziato a pensare alla possibilità di ripetere l’esperienza in quei Paesi che avevo già esplorato in passato come fotoreporter.

Il maestoso felino protegge il suo pasto, Botswana © Davide Pianezze


Come affronti l’argomento “fotografare in viaggio” con le persone che accompagni? Il primo giorno di viaggio presento una panoramica su ciò che incontreremo, fornisco informazioni generiche su attrezzatura e modalità d’impiego. Successivamente si passa alla pratica, quindi l’argomento viene affrontato in base alla tipologia del viaggio. Per esempio, nel caso della visita a un mercato tradizionale o a un villaggio, do innanzitutto indicazioni e consigli specifici in relazione al luogo e alla situazione, per poi muovermi anch’io tra la gente con la mia macchina fotografica come per realizzare un normale reportage. Ogni partecipante è libero di seguirmi per vedere come opero, ascoltare i miei suggerimenti e farmi domande, oppure può isolarsi e mettere in pratica i consigli forniti in precedenza. Successivamente ci si incontra per discutere i risultati ottenuti.

Laguna Grey – Parque Nacional Torres del Paine, Patagonia cilena © Davide Pianezze


Qual è stata l’esperienza di viaggio più impegnativa? Nel 2016 mi recai in Papua Indonesia per documentare la vita dei Korowai, popolazione indigena conosciuta per le capanne costruite a decine di metri sugli alberi e per le tradizioni legate al cannibalismo. Per raggiungere la regione mi imbarcai su un piccolo aereo dei missionari che operano in Papua, poi viaggiai altre otto ore appeso al cassone del camion di un cantiere impiegato a tracciare una strada. Successivamente impiegai sette giorni per attraversare l’intera regione, fatta di paludi abitate dalle sanguisughe e non casualmente battezzata dai missionari “l’inferno del sud”. I portatori che si erano offerti di aiutarmi il primo giorno furono pagati la sera stessa, ma la mattina successiva non si presentarono, forse già soddisfatti del compenso ricevuto. La situazione si ripeté nei giorni successivi. Prima di partire avevo preso la decisione di non portare cibo e acqua, pensando che trattandosi di una regione abitata da esseri umani, mi sarei potuto adeguare alle loro risorse alimentari. Purtroppo per diversi giorni non trovai alcun tipo di cibo. Dopo sette giorni di cammino raggiunsi un villaggio non lontano da una pista d’atterraggio tracciata in mezzo alla foresta. Qui i miei portatori di turno mi fecero capire che prima o poi sarebbe arrivato un aeroplano. Nel momento in cui il pilota mi fece pesare per poter salire a bordo realizzai che in soli sette giorni avevo perso nove chili di peso. Nonostante le difficoltà incontrate, quel viaggio rimane una delle esperienze più straordinarie della mia vita.

L’intervista completa sul nuovo numero di NPhotography, in edicola e disponibile online cliccando qui

Lascia un commento

qui