20 Ottobre 2019 di Redazione Redazione

di Livia Corbò

Douglas Kirkland ha ritratto i miti del cinema degli ultimi sessant’anni. Li ha resi umani, accessibili, vulnerabiliQuando sono state create le sequenze fondamentali del nostro immaginario, lui era lì, nell’intimità del set, a riprendere da un’angolatura privilegiata gli eroi dei nostri sogni.

Douglas Kirkland è alto quasi un metro e novanta, ha occhi azzurri scintillanti, carnagione chiara, i capelli bianchi di un mago buono e un sorriso luminoso. È un signore di ottantaquattro anni, ma ha l’aspetto e le movenze di un giovane. Se il tempo non l’ha cambiato è perché, dopo sessant’anni di carriera, nel suo sguardo si legge un entusiasmo paragonabile a quello della sua prima scoperta della camera oscura. Non si è mai fermato: lavora, studia, ricerca, sperimenta; è un uomo e un professionista che affronta ancora la vita e i suoi imprevisti con passione e curiosità. La continuità con se stesso è tale, da rendere facile immaginarselo quando, a undici anni, decide di diventare fotografo e a quattordici lavora come garzone di bottega in uno studio dove scatta fototessere, impara a sviluppare e a stampare.

Douglas Kirkland riuscì a convincere Elizabeth Taylor a farsi fotografare per la prima volta

Nella monografia A Life in Pictures, colpisce la sua capacità di trasformare e di trasformarsi, di adattarsi ai cambiamenti della professione, alle richieste dei clienti, alle rivoluzioni della tecnologia. La sua storia è quella di un ragazzo che da Toronto, spinto dalla grande passione e da una instancabile energia, scrive a Irving Penn, il suo mito, e senza alcun appoggio riesce a diventare assistente. Si dedicherà con tutto se stesso a quel lavoro, sempre pronto a lavorare più del richiesto.

Rimasto solo in studio, quando il resto dello staff è fuori per un servizio, e ansioso di compiacere il maestro, decide di pulire i vetri dello studio daylight, ma, come scoprirà a sue spese, era proprio il loro essere sporchi a rendere così particolare e attenuata la luce delle immagini di Penn. Quando l’aumento che aveva chiesto gli sarà rifiutato, si vedrà costretto a lasciare la grande città, per trasferirsi a Buffalo, ma dopo neanche un anno, si rilancia come freelance nell’avventura newyorkese.

La sua filosofia? Cercare i giornali meno importanti, clienti potenziali, muoversi in più direzioni, coltivare più progetti nello stesso momento. La tattica funziona ed è chiamato da Look magazine – sei milioni di copie mensili – per il quale inizia con servizi e copertine di moda.

Nel 1961, gli viene assegnato un compito proibitivo: cercare di convincere l’allora inafferrabile Elizabeth Taylor a farsi fotografare. Quella copertina e quel servizio, strappato alla Taylor grazie ai suoi modi sinceri e disarmanti, lanciano la sua carriera. L’anno successivo ritrae l’indimenticabile Marilyn. Il ragazzo canadese finalmente ce l’aveva fatta, aveva conquistato la fiducia dei colleghi del giornale e, soprattutto, dei suoi soggetti: Coco Chanel, Romy Schneider, Brigitte Bardot, Jeanne Moreau, Judy Garland, Audrey Hepburn.

Il fotografo del cinema

Gli anni Sessanta sono un viaggio in prima classe in un mondo magico. Douglas Kirkland sarà il fotografo del cinema per eccellenza, riuscendo a far diventare questo ambiente la sua casa per quasi sessant’anni. Con Faye Dunaway, nel 1968, realizza un selfie ante litteram. Al volante di una cabriolet, con l’attrice sorridente, seduta sul bordo della macchina, il braccio a prendere l’aria sopra il parabrezza. La macchina in movimento, i capelli al vento, il sole in controluce, un pomeriggio luminoso: proprio come due amici in gita.

Nel 1970 finisce l’avventura di Look che chiude improvvisamente le pubblicazioni. Sbarrata una porta, se ne apre un’altra. Comincia a collaborare con Life e, nel 1974, trasloca da New York a Los Angeles. In estate, Douglas e Françoise, la sua seconda moglie sposata nel 1967, attraversano il Paese a bordo di una Mustang decappottabile e si installano sulle colline di Hollywood.

Il suo approccio al cinema è descritto da Grazia Neri, sua agente italiana per decenni, nell’autobiografia La mia Fotografia: «Douglas Kirkland ha scelto la celebrazione della persona fotografata. Con infinita professionalità, sapiente esperienza… riesce a immortalare la persona ritratta così come lei stessa vorrebbe apparire. Douglas è un uomo di spettacolo. E sa che il cinema non è mai così veritiero come quando ricrea una situazione artificiosamente».

Fuori dalla comfort zone del contratto di Look, Kirkland si lancia nel mondo delle nascenti agenzie fotogiornalistiche, dalla Contact Press di Bob Pledge alla Sygma di Huber Henrotte. Continua a lavorare con Life, lavora per il New York Times e per il leggendario Michael Rand del londinese Sunday Times. Il cliente più esigente del periodo è People.

Special Photographer 

Continua a essere invitato come Special Photographer  sui set, cercando un punto di vista personale e supplementare a quello dei fotografi di scena. Una delle avventure più emozionanti ed esilaranti è il Kenya de La mia Africa. Partito con idee irrealizzabili, si adegua agli spazi e ai tempi rapidi delle riprese e si immerge nell’atmosfera cameratesca e familiare del set. Condivide le giornate e i safari con Sidney Pollack, Robert Redford, e Meryl Streep.

Nel 1991 la Kodak fonda il Digital Center e inaugura la mostra Light Years, dal primo libro di Kirkland (uscito nel 1988). Sempre disponibile alle novità, abbraccia le nuove tecnologie senza spaventarsi, due anni dopo esce Icons , una raccolta di suoi storici ritratti elaborati in digitale. Il talismano della sua lunga e inarrestabile carriera è forse il suo essere stato disponibile, con il suo luminoso sorriso, ai cambiamenti e alle curve non segnalate della vita. E le occasioni hanno continuato a presentarsi.

Nel 1996 gli viene proposto di lavorare al libro sulle riprese di Titanic. Dieci giorni dopo è già sul set ad Halifax, in Nova Scotia. «Si gira dal tramonto – racconterà –, cast, comparse e tecnici insieme su una grande barca per il primo ciak notturno. Quando la camera inizia a riprendere, c’è un’innegabile tensione nell’aria. Dal mio punto di vista, questo è il momento in cui devo diventare invisibile e, allo stesso tempo, trovare il luogo migliore per scattare immagini potenti».

Douglas Kirkland si è sempre dimostrato l’uomo giusto al momento giusto. Trova i suoi spazi e, se non ci sono, li crea. La vita non l’ha cambiato. Si ritiene la persona più fortunata della terra. A chi gli chiede qual è il segreto, risponde: «Faccio la cosa che desidero di più: fotografare». Kirkland è un raro caso di chi è pronto a consegnare, con estrema generosità, una parte della propria fortuna al mondo, ai colleghi, agli innumerevoli amici, alle star del cinema.

Era il 1996 e Tom Ford era la nuova stella di Gucci. I giornali italiani erano alla ricerca di suoi ritratti. L’occasione si presenta quando Tom Ford arriva a Los Angeles. Dall’agenzia Grazia Neri si pensa subito a Kirkland. Anche senza un assegnato da parte di un giornale e un vero e proprio accredito, accetta di scattare in mezzo ai paparazzi. Il giorno dopo arriva una mail stizzita della moglie Françoise: come ci siamo permessi di chiedergli di scattare in mezzo ai “pap”?! Questo è stato il mio primo contatto con i Kirkland. Nonostante tutto, le foto di Tom Ford erano perfette.

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