Davide Monteleone: un frammento di storia racconta la nascita dell’esperimento sociale in Russia
La fotografia è un linguaggio in continua evoluzione e abituarsi a una prassi sarebbe un errore. Nel suo ultimo lavoro The April Theses, pubblicato da Postcart in occasione del centenario della Rivoluzione bolscevica, il fotografo narra, in particolare, il viaggio di Lenin dalla Svizzera alla Russia ricorrendo a interventi e manipolazioni che gli permettono di affiancare, alla fotografia del paesaggio, la documentazione e la ricerca negli archivi per la ricostruzione storica.
Intervista a Davide Monteleone
Che cosa ti ha portato a lavorare in Russia?
«Una coincidenza personale e professionale. Sedici anni fa ho avuto l’opportunità di fare un viaggio in Russia. Doveva essere breve e si è prolungato per due anni. È continuato fino a oggi».
Perché ti interessa questa parte del mondo?
«È un Paese molto grande dove c’è una relazione particolare tra l’individuo e il potere. È questo esperimento sociale che mi interessa».
Nel tuo libro ripercorri il viaggio di Lenin dalla Svizzera alla Russia. Perché hai scelto questo particolare momento storico?
«Volevo realizzare un lavoro sul centenario della Rivoluzione bolscevica. Naturalmente è un argomento su cui è già stato detto e scritto molto, così ho cercato di restringere il campo, concentrando la mia attenzione sul viaggio che ha condotto Lenin dalla Svizzera in Russia. Un viaggio che è stato probabilmente agevolato dal governo tedesco. Insomma, una rivoluzione sponsorizzata da un altro Paese».
È un libro fotografico che contiene molti interventi personali, dalle manipolazioni sulle fotografie ad alcuni scatti nei quali interpreti Lenin.
«Innanzitutto, è un libro. Da sempre trovo molto più stimolante l’aspetto narrativo della fotografia piuttosto che concentrarmi sulla singola immagine. Le manipolazioni e le ingerenze sono utili per comprendere la sottile linea che divide la cronaca e la propaganda. È vero che ci sono delle regole nella fotografia documentaria, e ancora più forti nel fotogiornalismo, ma la fotografia deve lasciare un margine di interpretazione. Trovo interessante che si parli della manipolazione della fotografia e del fatto che molte immagini di questo lavoro siano una messa in scena. Da alcuni questo è considerato illegittimo, ma alla fine è l’onestà intellettuale, il fatto di dichiararlo, che fa la differenza. Non sono le fotografie che mentono, sono i fotografi».
Se non sono più i giornali, chi sono i tuoi interlocutori pricipali?
«Non è del tutto vero che i giornali non siano più i miei interlocutori. Lo sono diventati in modo diverso. Non ho più relazioni di dipendenza con l’editoria in senso stretto; lavoro con giornali con cui posso stringere relazioni più di partnership che di pura commissione. Propongo progetti personali e con loro discuto per costruire un percorso. I giornali restano un tassello della mia modalità di lavoro che prevede anche istituzioni, musei, gallerie».
Il fotografo è un imprenditore oggi?
«Molto spesso sì. Sono una piccola impresa che produce idee rappresentate attraverso la fotografia e distribuite utilizzando più canali. Non aspetto più che un committente mi assegni un lavoro, sicuramente oggi ho un’attitudine più imprenditoriale
La fotografia può avvicinare anche altri linguaggi, come il video o l’illustrazione?
«Assolutamente sì, ci sono molti esperimenti che vanno in questa direzione, così come ci sono collaborazioni significative tra la fotografia e il mondo dei dati. La fotografia è sempre stata usata in tanti modi, dai cataloghi industriali ai matrimoni, alla documentazione delle guerre. Lo stile e il linguaggio si stanno evolvendo, non si deve restare legati al linguaggio visivo a cui siamo stati abituati».
Tu vivi da molti anni in Russia; si può dire che sei un locale. C’è ancora un’egemonia occidentale della cultura visiva?
«È una domanda che mi faccio spesso anch’io. Sicuramente sì, e questo dipende da un fatto di industria, di mercato, di Paesi che hanno colonizzato altri Paesi. Ma oggi è il momento giusto per interrogarci e capire che culture diverse hanno un linguaggio visivo potenzialmente diverso».