è un crimine contro il paesaggio. Come ci sono crimini contro l’umanità, possono esserci crimini contro il paesaggio. Quando costruisci un paesaggio differente, un nuovo paesaggio, devi prevedere che rimarrà lì. Ho visto punti in cui quel muro è stato abbattuto ed eretto da un’altra parte, ma le cicatrici rimangono. Ho pensato: “Josef, fai un grande errore se non lo fotografi, perché questo in realtà è un caso estremo di distruzione del paesaggio”.
In una scena del documentario, un militare al checkpoint di Qalandiya, vicino Ramallah, ti ordina via megafono di allontanarti da una recinzione… Te ne eri accorto o eri così concentrato sulla fotografia da non farci caso? Non mi è importato. Sapevo di dover scattare quell’immagine a qualsiasi costo. Forse se il soldato avesse cominciato a sparare me ne sarei andato. È una situazione simile a quella che ho vissuto nel 1968, per esempio… A volte le persone mi dicono che allora sono stato molto coraggioso. Io non credo fosse coraggio. Ero semplicemente in una specie di trance. Scattavo e facevo quello che pensavo di dover fare.
E sono cose importanti da fotografare. Moltissime persone mi hanno detto “Conosciamo il posto, ma non l’avevamo mai visto”. Insomma, se riesci a mostrare una cosa del genere, non è male. Un poeta mi ha detto “Hai reso visibile l’invisibile.
E la maggior parte degli Israeliani cerca di non vedere”. Un altro commento che mi ha davvero sorpreso, perché lei si occupa di queste cose da molti anni, è di Ariella Azoulay [documentarista e teorica di fotografia e cultura visuale, ndr], che mi ha detto: “Hai davvero inventato la lingua dell’occupazione”. Vero o no, chi lo sa? Credo sia stata una buona intuizione, quando sono arrivato, capire che una fotocamera panoramica poteva essere un buono strumento per quel lavoro.
Hai parlato del tuo rapporto con la bellezza del paesaggio, ma in Israele ti sei concentrato su un paesaggio che viene distrutto, devastato e in qualche modo manipolato. In che modo illustri questo rapporto? Non sono sicuro se sia esattamente la stessa cosa, ma non ho mai fotografato una bella donna. Ricordo un commento di Cartier-Bresson sui miei paesaggi. Mi disse: “Mi piacciono i paesaggi colti”. Penso di avere un rapporto più stretto con i visi delle persone che hanno avuto una vita dura, che non con quelli delle modelle. Credo che ovunque vado, forse cerco (o magari mi sbaglio) la bellezza del luogo. I paesaggi che soffrono contengono una tragedia, ma anche nella tragedia c’è bellezza. Ce n’è tanta da farci ancora andare a teatro a vedere le tragedie greche. Forse sono interessato a qualcosa che è forte, e che è bello.
Il successo, con la libertà che offre ai fotografi più che con i suoi aspetti materiali, è una motivazione importante per te? Per rispondere a questa domanda, per quanto riguarda la fotografia, posso dire che per me è un enorme successo scattare due o tre buone immagini in un anno. E un altro successo è che, quando mi sveglio la mattina, non mi fa male niente. Posso uscire, sentirmi bene e fotografare. È questo la fotografia: alzarsi, uscire e andare a vedere. E se trovi qualcosa di interessante da fotografare, e se finisci la giornata con qualche rullino, magari pensi che qualcosa possa rimanere… È questa la differenza tra la fotografia e vendere scarpe. Vendi le scarpe, torni a casa, hai un po’ di soldi e niente altro. Non hai nulla che rimane.
Josef Koudelka
Nato in Cecoslovacchia nel 1938, Josef Koudelka ha anonimamente conquistato le prime pagine nel 1968, quando ha documentato l’invasione di Praga da parte delle forze del Patto di Varsavia. Le sue immagini sono arrivate clandestinamente a Magnum e sono state pubblicate dal Sunday Times Magazine con le sole iniziali “PP” (per “Prague Photographer”), per proteggere la sua identità. Nel 1969, ancora senza nome, sono state premiate con la Robert Capa Gold Medal. Nel 1970 Koudelka ha cercato rifugio in Occidente e, poco dopo, è entrato in Magnum. Nel 1975 ha pubblicato il primo libro, Zingari.
Nel 1988 è uscito invece Exils. Oggi ha alle spalle più di una dozzina di libri, tra cui Invasione Praga 68 (2008), Piemonte (2009) e La Fabrique d’Exils (2017). Tra i premi attribuiti a Koudelka citiamo il Prix Nadar (1978), il Grand Prix National de la Photographie (1989), il Grand Prix Cartier- Bresson (1991) e l’Hasselblad Foundation International Award in Photography (1992)