5 Giugno 2020 di Redazione Redazione
Quanti di noi si sentono davvero bene nella propria pelle? Per modelli e attori, o per estetisti ed esperti di bellezza, ma anche per tutti gli adolescenti dipendenti da Instagram, questa è una domanda con una potenziale pesante ricaduta sul modo in cui ci si vede e su come si pensa ci vedano gli altri. Possiamo provare a rassicurarci con il vecchio adagio che la bellezza che conta è quella interiore, ma sembra che l’idea stessa di bellezza continui a essere definita dalle immagini che promuovono cosmetici o abbigliamento. Le copertine delle riviste, le agenzie di modelle e modelli e, sì, anche i fotografi contribuiscono a dare forma a un ideale percepito. Ci sono delle eccezioni: Sophie Harris-Taylor è una fotografa d’arte specializzata in ritratti che ha costruito la propria reputazione, e ha vinto premi, con immagini di persone normali, soprattutto donne (compresa lei), alle prese con problemi della pelle, difficoltà sociali, malattie mentali e qualsiasi ostacolo la vita possa porre.
L’ultima raccolta di Sophie, Epidermis, che è stata in mostra a Londra, è ispirata dalle sue esperienze adolescenziali e dall’ammirazione per il modo in cui pittori contemporanei, come Lucian Freud e Jenny Saville, trattano la pelle umana. «Sono innamorata del modo in cui dipingono la pelle», ci dice. «Anche se io non dipingo, con Epidermis ho finalmente sentito di poter fotografare la vera pelle».
Louisa, dalla recente serie Epidermis.

Louisa, dalla recente serie “Epidermis”. Sophie sottolinea: «Volevo che le persone vedessero prima il soggetto e poi la pelle».

Cosa ti ha spinta ad avviare il progetto Epidermis? Ci sono state un paio di cause scatenanti. La prima è stata il fatto che per tutta l’adolescenza e nel corso dei miei vent’anni ho sofferto di acne in maniera piuttosto seria. Invecchiando ho imparato a sentirmi più sicura nella mia pelle, ma da ragazzina mi vergognavo, ne soffrivo. Non avevo autostima. Ero imba- razzata. All’epoca non c’erano i social media, ma c’erano riviste come Vogue o Glamour, o c’erano i film – e nessuno aveva l’acne! Mi sentivo di fatto molto diversa, sentivo di avere qualcosa di sbagliato, quando in realtà soffrivo semplicemente di uno dei problemi di pelle più comuni nel mondo.

È un argomento che molte persone evitano, non deve essere stato facile da affrontare in fotografia… Volevo solo creare qualcosa di bello. Volevo l’impatto della sezione beauty di una rivista, volevo un effetto leggero e fresco e volevo che le persone vedessero prima il soggetto e poi la sua pelle. Volevo che le ragazze si sentissero belle, ma non che si sentissero nascoste dietro una maschera di trucco, né che fossero così acconciate da non riconoscersi più nelle foto. Per me, è stato liberatorio e, a giudicare da alcuni messaggi che ho ricevuto, il progetto ha centrato lo scopo di far sentire le persone un po’ meglio, un po’ più sicure, più disposte ad accettare la propria pelle, meno negative.
Katie. Un altro ritratto dalla serie In Recovery.

Katie. Un altro ritratto dalla serie “In Recovery”. Dove possibile, i soggetti sono illuminati solo in luce naturale.


Sì, si vede l’approccio positivo. Come sono state usate le immagini da quando le hai pubblicate? Dall’avvio, il progetto ha ricevuto molta attenzione sulla stampa, il che è straordinario. Molti si sono concentrati sulla positività e l’accettazione di sé. Sono uscite per lo più come stampe su riviste. La rivista i-D ha realizzato un video sul backstage di alcune delle immagini. Si parla molto di body positivity, di inclusione e di come cambiare gli atteggiamenti delle persone, ma ritocchiamo ancora tantissimo la pelle!

Perché preferisci ritrarre persone normali e non modelli professionisti?
Mi piace la sfida di lavorare con persone vere, non modelli, non attori, ma persone non abituate a stare di fronte a una fotocamera. Cerco di rendere il processo rassicurante e liberatorio. Io sono sempre così nervosa quando vengo fotografata, mi sento a disagio, credo capiti a tantissimi fotografi… Essere ripresi mette in una posizione di vulnerabilità, ma può anche far sentire belli e importanti. Voglio che i miei soggetti si sentano così. Con tutti, deve essere una collaborazione: anche se ho le mie idee e il mio modo di vederli, cerco di spingerli a partecipare.

I tuoi ritratti sono spesso pensosi. È una scelta di stile o dipende più dalla tecnica con cui scatti? Credo un po’ tutti e due. Quando studiavo, ero influenzata da Nan Goldin e dall’emozione e dall’empatia nei suoi lavori. Ero influenzata anche da alcuni pittori rinascimentali, dalla composizione e dalle luci cinematografiche. Il mio lavoro è iniziato in modo più immediato e spontaneo. Nel tempo si è aggiunto lo stile. E adesso tento di allontanarmi da quello stile, per non diventare ripetitiva.
Volto illuminato dal sole

Quando fotografa i suoi soggetti, Sophie cerca la collaborazione. Tra le sue influenze cita Nan Goldin, il cinema e la pittura rinascimentale.

L’amore per la luce naturale è evidente. È anche questa una scelta deliberata? Sì, ho sempre amato la luce, spesso è lei a farmi prendere in mano la fotocamera. Mi attira anche la libertà di essere svincolata dalle luci fotografiche. Anche con i soggetti è più facile, la sessione somiglia più a una conversazione. Mi trovo a metà tra il documentario e il ritratto formale e mi piace che le persone si sentano più a loro agio senza troppa attrezzatura intorno. Spesso siamo solo io e il soggetto.

Quali consigli dai agli studenti che vogliono diventare professionisti? Per me si tratta sempre di fotografare per se stessi e fotografare le cose che interessano. Non bisogna cercare di incasellarsi o di fare solo quello che si spera possa portare un sacco di soldi. Come uno scrittore non si dedicherebbe a un argomento che non lo appassiona, così un fotografo dovrebbe seguire le proprie passioni e dar vita all’arte che davvero vuole creare.

Sophie Harris-Taylor

Sophie Harris-Taylor - profilo
È una premiata ritrattista d’arte. Nel 2013 è stata nominata per il Renaissance Photography Prize. Nel 2015 è stata tra i finalisti del prestigioso Taylor Wessing Photographic Portrait Prize organizzato dalla National Portrait Gallery di Londra. Nel 2017, infine, si è aggiudicata il Portrait of Britain. Le sue opere sono state esposte in numerose mostre e gallerie, soprattutto in Gran Bretagna, dove risiede. Sophie è autrice di due libri, Sisters e MTWTFSS (l’abbreviazione dei giorni della settimana). I suoi scatti sono stati pubblicati su molte riviste, tra cui Spiegel, Elle, Vanity Fair Italia, Huffington Post e The Guardian.
www.sophieharristaylor.com.

Lascia un commento

qui