Esther Horvath è la prima donna ungherese a vincere un World Press Photo nella categoria Environment nel 2020. Dal 2015 ha dedicato il suo lavoro al Polo Nord, in particolare all’Oceano Artico, documentando studi e il dietro le quinte delle spedizioni. È la fotografa ufficiale di MOSAiC, la più grande esplorazione polare di tutti i tempi. Ha trascorso mesi tra i ghiacci, ipnotizzata dal paesaggio, dalla luce costante dell’estate e dal buio fitto dell’inverno. Si dice allegra, capace di apprezzare le piccole cose, inquieta nella vita, ma paziente e mite quando si tratta della sua fotografia. Soprattutto se è a meno 35 gradi centigradi.
Livia Corbò ha raccolto per noi le parole di Esther, che si racconta senza veli.
Un amore a prima vista
La curiosità è il mio tratto caratteriale distintivo. Volevo esplorare il mondo, conoscere nuove culture, vivere all’estero. Da piccola avevo già comunicato ai miei di volermi trasferire negli Stati Uniti. I risparmi raccolti grazie ai lavori estivi, a partire dai 16 anni, mi permisero di viaggiare.
La paura di diventare un’artista squattrinata mi ha guidato presto su un sentiero sicuro e solido, verso un campo di studi non letterario o artistico. A vent’anni avevo un diploma in economia, ma mi sono resa conto di non essere un’economista e ho cominciato a studiare fotografia.
Documentare la vita di un gruppo di persone che potevano essere di ispirazione per tutti fu la spinta per chiedere l’autorizzazione di fotografare il reparto speciale dei pompieri della città di New York. Appena mi trasferii per seguire i corsi dell’International Center of Photography non sapevo di essere capitata ad abitare vicino alla sede del New York City Firemen Department e, dopo appena tre settimana dal mio arrivo, cominciai a ritrarre i vigili del fuoco.
Lynsay Addario e il suo lavoro sono stati per me fonte d’ispirazione. Seguire le operazioni di tutela e di salvataggio delle tartarughe marine, mi ha fatto capire meglio cosa mi appassionava come fotografa. Quel progetto mi ha condotto verso la ricerca scientifica e naturalistica. Il mio primo lavoro commissionato sulla rompighiaccio americana Healy a nord dell’Alaska nel 2015, le giornate passate a fotografare gli scienziati che studiano l’Artico e le notti trascorse sul ponte a osservare il mare di ghiaccio hanno indirizzato in modo permanente il mio percorso. È stato amore a prima vista. Documentare l’Artico – il luogo che più di ogni altro sta cambiando rapidamente – e raccontare gli uomini e le donne che lo studiano sono diventati il focus principale della mia ricerca visiva.
La luce perenne, sempre mutevole durante il periodo estivo o la totale assenza di luce durante le lunghe giornate invernali al Polo Nord mi ipnotizzano. La ricerca di quella particolare luce nordica è la costante delle mie fotografie.
Un paio di spesse muffole hanno impedito che mi si congelassero le dita mentre scattavo a -35 gradi centigradi durante la spedizione MOSAiC. Fotografare nell’Artico è molto impegnativo perché, per la maggior parte del tempo, la temperatura (o quella percepita) è inferiore a 45 gradi e la fotocamera è di metallo. Un team a bordo della nave Polarstern mi ha aiutato a ricoprire il corpo macchina con una custodia che non solo protegge la fotocamera, ma anche la mia mano quando tocca la struttura metallica. Dopo molta pratica ho imparato a non sfilarmi i guanti per premere il pulsante cui è stato attaccato uno spesso strato di scotch perché fosse più facile da schiacciare. I mesi invernali al Polo Nord e le ore diurne nel buio totale danno la sensazione di essere su un altro pianeta: sono un’immersione nell’oscurità completa.
Il ghiaccio marino che si fonde, la sua estensione sempre più ridotta, il suo spessore sempre più sottile, sono i fenomeni che hanno sviluppato in me un’attenzione e un amore molto profondi per l’Artico, l’ambiente che si modifica più rapidamente di ogni altro sul nostro pianeta ed è l’epicentro del cambiamento climatico. Le previsioni degli scienziati che sostengono che entro il 2035 potremmo vivere la prima estate senza ghiaccio marino nell’Oceano Artico è scioccante e ha rafforzato la mia volontà di comunicare questo rischio. I cambiamenti climatici, studiati dagli scienziati con i quali ho avuto l’opportunità di collaborare, non sono direttamente visibili nelle mie foto e nelle immagini dei paesaggi. Lavorare a stretto contatto con loro e associare ai miei scatti i dati che raccolgono, mi ha spinto a raccontare la vita di questi ricercatori: chi sono, come operano in condizioni estreme e, attraverso le loro storie, mostrare come arrivano a noi le informazioni sui cambiamenti climatici.
Osservare a lungo una fotografia con stupore e meraviglia, esserne colpito nel profondo e provare gioia durante quell’esperienza visiva è ciò che considero una bella fotografia.
di Livia Corbò. Ha collaborato Marta Cannoni
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