Fiorella Mannoia, una delle voci femminili di punta della canzone italiana, ci ha raccontato come la fotografia abbia modificato le sue abitudini e il suo modo di camminare per le strade del mondo e come, di conseguenza, anche le canzoni trovino ora risonanza nelle sue fotografie.
Quando una fotografia e una canzone si assomigliano
Come nasce questa passione? Era già latente, anche se non praticata o è esplosa all’improvviso? «È stato un fulmine a ciel sereno. Un certo istinto e piacere per fermare momenti con il telefonino c’erano già, ma non pensavo proprio di farlo seriamente. Poi casualmente, mentre mi trovavo a New York, ho accompagnato un mio collaboratore, che voleva comprarsi una macchina fotografica, in un negozio specializzato. Così, sul momento, ho deciso di acquistarne una anch’io, dicendo a me stessa “vediamo se ci capisco qualcosa”. E da li ho compreso quale sensazione si prova a scattare con una macchina fotografica vera. Ne sono rimasta come stordita Così è iniziata la mia passione e mi sono messa a fotografare con impegno, piano piano ho imparato a conoscere sempre meglio la tecnica, la luce, l’inquadratura. Sia chiaro che non mi sento una fotografa – i professionisti sono altri -, fino a un certo momento le foto le tenevo per me, forse era una questione quasi di pudore, ma poi tutti i miei collaboratori, vedendole e apprezzandole, mi hanno incoraggiato a mostrarle. Perché no – mi sono detta – e ho così iniziato a scegliere quelle da accostare alle mie canzoni».
Il tuo ultimo album si intitola Personale, parola che rimanda a se stessi, ma che si usa anche nel senso di “mostra personale”. Durante i concerti del recente tour le tue foto erano proiettate e dialogavano con i tuoi pezzi. Quale criterio ti ha guidato nell’editing di questi incroci tra immagini, parole e note? «Le foto proposte durante il concerto erano già inserite nel booklet del disco. Ho voluto abbinarle con un’intenzione precisa, cercando un nesso di senso tra immagini e testo delle canzoni, è stato divertente e interessante scorrere tutte le mie foto e cercare quelle che nei miei pensieri meglio rappresentavano un determinato pezzo. Nella canzone Carillon, per esempio, si parla di violenza sulle donne e c’è l’immagine di una sposa che si gira in maniera interrogativa, quasi facendo pensare – perlomeno nella mia mente – che quella sposa, al momento del matrimonio, pur non sapendo cosa sarebbe successo dopo, già quasi presagiva una minaccia futura. In un’altra canzone intitolata Il senso si dice “abbiamo senso solo io e te”, e per quella ho trovato una foto che feci a Siviglia a due ragazze, rannicchiate dietro un muro, talmente felici e in armonia che, pur vedendomi mentre le fotografavo, non gliene importava nulla. Erano concentrate solo sul loro legame e su quel momento di tenerezza. Tutti film che mi sono fatta da sola, ovviamente».
Nel tuo album Personale c’è un brano che s’intitola Il peso del coraggio. Per fotografare, secondo te, ci vuole coraggio? Ce ne vuole per alzare una macchina fotografica verso un volto? «Credo che questa canzone abbia una profondità particolare e forse è una delle più belle tra quelle che ho cantato. Dipende da come guardi la cosa. Io più che con coraggio fotograferei il coraggio, quello delle persone che lo dimostrano nella quotidianità, magari nell’alzarsi alle sei del mattino per svolgere un lavoro che nemmeno piace, quello degli invisibili che nessuno conosce, ma che nella vita mandano avanti questo pianeta. Non mi interesserebbe fotografare per esempio personaggi famosi, per quanto coraggiosi o che abbiano lasciato un segno nella società»