6 Giugno 2020 di Redazione Redazione

Il fotolibro «più intenso sulla città di Venezia», secondo Italo Zannier, nacque dopo che il menabò, realizzato dal grafico Massimo Vignelli, con le fotografie riprese da Berengo Gardin tra il 1956 e il 1960, era stato proposto inutilmente a otto editori italiani. Una mostra con queste immagini è stata poi esposta, a cura di Bruno Zevi, nella sede dell’Istituto di Architettura di Londra e ammirata da Albert Mermoud, illuminato editore di La Guilde du Livre, che finalmente propose all’autore la realizzazione di un libro, concedendogli carta bianca. In venticinque giorni nacque Venise des saisons , stampato in raffinata héliogravure con una tiratura impensabile per l’Italia. Gianni Berengo Gardin aveva affinato la propria tecnica fotografica nel circolo della Gondola, ma aveva sviluppato la propria conoscenza culturale e la sua fame di bibliofilo con l’aiuto dello zio Fritz Redl, ebreo, esule in America, amico di Cornell Capa (fratello di Robert), che gli inviava Infinity , la rivista dei professionisti americani, Popular Photography Life e fotolibri come  The Family of Man, insieme ai preziosi rulli delle prime pellicole Ansco da 400 Asa, che gli permisero di riprendere al meglio le atmosfere di una Venezia soprattutto invernale, brumosa, notturna e malinconica. Di una Venezia che, per Giorgio Bassani «vive e palpita: come tutto ciò che appartiene alla storia dolorosa e gioiosa degli uomini». In questo fotolibro troviamo le influenze del miglior fotoamatorismo italiano e della fotografia umanista francese, soprattutto di Willy Ronis di cui Berengo Gardin era divenuto amico durante il suo soggiorno parigino e l’impatto dello sguardo rivoluzionario e spregiudicato di William Klein nell’approccio al soggetto e nell’uso del grandangolo, anche se non ne accettava l’aggressività intrusiva e gli eccessi linguistici di contrasto e sgranatura.

Dal fotoamatorismo al professionismo

Venise des saisons  segnò il passaggio di Berengo Gardin dal fotoamatorismo al professionismo, confortato nella scelta da Paolo Monti e dal guru della fotografia Romeo Martinez. Il suo passo lungo fotografico e lo sguardo poetico e narrativo stavano stretti nell’accademia dei pur prestigiosi circoli e concorsi fotografici dell’epoca ed era più sensibile al Fotoracconto proposto nella rivista Il Politecnico di Elio Vittorini e ai Fotodocumentari  di Cinema Nuovo, film su carta teorizzati da Luigi Crocenzi come racconti per immagini e di cui André Malraux ne sottolineava la complessità nell’introduzione a Israel di Izis Bidermanas per La Guilde du Livre. Il fotolibro è lo strumento ideale per raccontare storie e mettere sulle pagine l’espressione della sensibilità umana e civile dell’artigiano fotografo, appassionato del proprio mestiere, come si definisce Berengo Gardin. Per Silvana Turzio, «il suo lavoro è pensato, progettato e realizzato per il libro. È nel succedersi dei libri che si dipana il suo progetto di enciclopedia visiva che lo rende testimone del suo tempo e rimanda non tanto a Walker Evans e August Sander quanto al letterario affresco sociale della Comédie humaine  di Honoré de Balzac»

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