20 Febbraio 2020 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

Che si tratti di “fermare” il giorno più importante nella vita di una coppia o di immortalare una festività dall’altra parte del globo, per Edoardo Agresti una fotografia è innanzitutto un reportage, un racconto non solo della realtà che il fotografo si trova a inquadrare attraverso l’obiettivo della propria fotocamera ma anche di sé, del proprio modo di vedere e vivere il mondo.
Che cosa rappresenta per te la fotografia? E che cos’è una buona fotografia? Prendo in prestito le parole di Henri Cartier-Bresson: “Fotografare vuol dire mettere sulla stessa linea di mira, la mente, gli occhi e il cuore. Fotografare è un modo di vivere”. Ecco, la fotografia per me è un modo di vivere, è il linguaggio che uso per superare la mia timidezza e relazionarmi con gli altri. È il mezzo che mi permette di esternare le mie emozioni. La fotografia è ciò che, meglio di altro, parla di me. Una buona fotografia deve far pensare (mente), deve essere bella esteticamente (occhio) e deve emozionare (cuore). Quando questi tre elementi sono in sintonia tra loro, allora molto probabilmente sto guardando una buona fotografia.
In che senso, per te, la fotografia di matrimonio è reportage? “Reportage” è una parola francese che significa “riportare”, nel senso di raccontare. Quando scatto fotografie a un matrimonio cerco di raccontare la storia di quella giornata così speciale. Nel matrimonio ti confronti con tante situazioni diverse e non solo lo sposo e la sposa. Ci sono i genitori, gli amici, i parenti, tutte le persone che hanno contribuito a rendere unico quel giorno, il fiorista, i camerieri, il catering, i musicisti. Anche la location ha la sua importanza e quindi è bello fotografare sia l’insieme sia i dettagli che caratterizzano l’ambiente. Insomma, è un reportage sotto tutti gli aspetti.

La sposa un attimo prima di arrivare in chiesa © Edoardo Agresti


È facile immaginare che un viaggio richieda una grande pianificazione: è lo stesso per un matrimonio? Il matrimonio è un evento unico e la fotografia di tale evento non ammette sbagli, deve essere “buona la prima”. Quindi è importante – se possibile – conoscere a fondo la coppia, capire quali sono le loro esigenze e cosa cercano dalle fotografie. Io cerco di parlare o incontrare diverse volte i futuri sposi – magari con gli stranieri faccio delle video chiamate – proprio per entrare il più possibile in empatia con loro. In fin dei conti affidano al tuo occhio e alla tua sensibilità i loro ricordi futuri relativamente a quel giorno. Se non conosco la location o il luogo dove si sposano faccio un sopralluogo e, in genere, mi muovo qualche settimana prima dell’evento in modo da rendermi conto di quella che sarà la luce che troverò quel giorno.
Hai mai ricevuto qualche richiesta particolare? Un giorno, mi contattarono per un matrimonio in Nigeria con oltre 2.500 invitati. Inizialmente pensai a uno scherzo poi però quando mi arrivò l’acconto e il contratto firmato iniziai a credere che fosse vero. Quando ebbi i biglietti aerei in mano ne ebbi la certezza. Avevo parlato con la sposa in videoconferenza, immaginavo che fossero persone importanti ma non sapevo fino a che punto. Partii con il mio team e, una volta arrivati a Benin City nel sud del Paese, realizzai che mi trovavo a scattare a un matrimonio reale: il futuro marito della sposa era un principe. Un’avventura incredibile che potete vedere nel mio blog.

Il Festival di Holi in India © Edoardo Agresti


Parlando di reportage di viaggio, quali sono i tuoi principali interessi? Cerco di raccontare storie in cui i protagonisti siano le persone. Mi piace entrare in contatto con la cultura, le tradizioni e le usanze di chi sto fotografando. Il paesaggio mi affascina meno anche se diventa importante nel momento in cui devi contestualizzare ciò che stai raccontando.
La fotografia deve lasciar intravedere la persona che l’ha scattata, le sue emozioni, o il fotografo documentarista deve mantenere un certo distacco, si deve limitare a registrare la realtà così com’è? La fotografia per sua natura non riporta la realtà così com’è; quando fotografi decidi cosa mettere dentro e cosa lasciare fuori dal fotogramma. È solo uno strappo della realtà e, tra l’altro, riporti qualcosa che non è più perché ormai quel momento è passato. Naturalmente se fotografi un monumento quello è, può cambiare la luce ma il soggetto è sempre lo stesso. Per le persone la cosa cambia radicalmente. Fermi attimi e frazioni di secondo che non saranno più. Io credo che la fotografia non sia una cosa asettica dove chi scatta rimane assente, anzi. Credo sia impossibile, nel momento in cui la fotografia è un modo di vedere e vivere il mondo, realizzare delle immagini dove non si percepisca la “presenza” del fotografo. Questo non è affatto facile perché si fotografa ciò che si ha davanti e non, come nella pittura, qualcosa che hai nella testa. Tra l’altro io credo che trovare il proprio stile voglia dire mettere se stessi negli scatti. Spesso quando guardo le foto di colleghi che conosco personalmente e che hanno autorialità nel loro lavoro, rivedo il loro carattere, le loro paure, le loro gioie e debolezze.

L’intervista completa è su NPhotography n. 95, acquistabile online cliccando qui

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