Dallo scorso settembre Milano rende omaggio al suo quarantennale lavoro attraverso due grandi mostre, una alla Fondazione Sozzani dal titolo Time at Work  e l’altra, From one season to another , all’Armani/Silos

19 Novembre 2018 di Vanessa Avatar

Sarah Moon

«Mi ricordo di una notte in cui era caduta la neve; al mattino appena sveglia, feci quello che non avevo mai fatto: spinta da non so quale necessità, fotografai le ortensie del giardino, sepolte. Sul positivo, un rettangolo bianco, c’erano solo delle tracce e dei segni. Non ero più io, ma la vita che raccontava la sua storia: e premendo leggermente l’indice sullo scatto, in un battere di ciglia, in una frazione di secondo, io la facevo mia. È allora che tutto è cominciato, che ho fotografato per me stessa, mentre prima qualcuno me lo doveva chiedere perché osassi»

Questa precisa fase della vita professionale e privata di Sarah Moon, che l’artista stessa ricorda, giunse in seguito alla tragica morte di Mike Yavel, suo assistente, amico e “occhio sinistro”, come lo ha definito, vicino alla fotografa per più di quindici anni. Da quel momento in poi il suo modo di osservare trovò un’evoluzione, donando ai suoi scatti quell’intensità, profondità ed eleganza che unanimemente vengono riconosciute alla sua grande opera artistica: «Fotografa di moda lo sono e lo rimarrò – ricorda l’autrice –, questo lo posso dire, ma oltre a questo io fotografo, senza un fine, tutto e niente, quello che mi pare e che non si somiglia». Guardare le straordinarie fotografie di Sarah Moon è come immergersi nel mondo dei sogni, evocando momenti, sensazioni e coincidenze provenienti da una realtà immaginaria, filtrata dal ricordo e dall’inconscio. Immagini decadenti e cariche di tensione drammatica, che penetrano nella psiche e che richiamano alla memoria quella realtà profonda e misteriosa che caratterizza le opere simboliste. Attraverso le sue visioni evanescenti e atemporali, ha rivoluzionato la fotografia di moda e l’idea di bellezza degli anni Settanta, ritraendo le modelle, in particolar modo nella prima fase del suo lavoro, come delle moderne Madonne giottesche, attingendo a un’estetica che per molti elementi ci riporta alla memoria gli scatti di Adolf De Meyer, primo fotografo di moda, ma anche artisti come Clarence H. White, Edward Steichen e Julia Margareth Cameron, tra i protagonisti della straordinaria esperienza di Camera Work.

Sarah Moon: le mostre

Dallo scorso settembre Milano rende omaggio al suo quarantennale lavoro attraverso due grandi mostre, una alla Fondazione Sozzani dal titolo Time at Work  e l’altra, From one season to another , all’Armani/Silos. Le mostre ripercorrono, attraverso una panoramica particolarmente ricca, le espressioni più significative dell’intera opera di Sarah Moon, tra stampe di grande formato in bianco e nero e a colori, esposte negli spazi Armani, e un focus su gli anni tra il 1995 e il 2018 nelle sale di Corso Como 10. Abbiamo avuto modo di rivolgere qualche domanda all’artista, che ci ha raccontato qualcosa di più sul suo rapporto con le proprie immagini.

Intervista a Sarah Moon

Attraverso le sue fotografie, ha rivoluzionato l’ideale della donna nella moda. Cos’è la bellezza secondo lei?
«La bellezza è una specie di Hydra. È proteiforme. Ciò che è bello per uno potrebbe non essere per qualcun altro. È un riflesso. È un’evidenza negli occhi e, tuttavia, è una percezione individuale».

Milano omaggia la sua carriera con due grandi esposizioni a lei dedicate, una alla Fondazione Sozzani dal titolo Sarah Moon. Time at Work e l’altra all’Armani/Silos intitolata From One Season to Another. Che relazione ha con i suoi lavori del passato?
«È un continuum , passo dopo passo. Anche se spero sempre di trovare un altro modo per cantare la mia canzone. È vero che mi relaziono più a ciò che è recente. Alcuni lavori si ergono nel tempo, a patto che non siano solo aneddotici, e che ci sia un valore aggiunto, che non dipende da me, ma da un rischio o da una possibilità. È raro. Probabilmente è inconscio. Non ho una spiegazione, ma quando riconosco qualcosa, allo stesso tempo la scopro. Sono sempre stata conscia del tempo, ne sono sempre di più, e la fotografia è la metafora perfetta in quanto l’istante scompare non appena viene catturato. Nelle Polaroid che non ho fissato, e che sono esposte alla mostra Time at work , il tempo le cancella o lavora su di esse, lasciando tracce del suo passaggio».

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