6 Aprile 2020 di Redazione Redazione
L’enigma e il senso più profondo dell’incognito entrano nel tessuto narrativo di Youssef Nabil che attraverso le sue fotografie nostalgiche rende omaggio al passato. Colorare a mano le stampe alla gelatina d’argento è molto più che un espediente tecnico: è il modo per cancellare le imperfezioni della realtà e sovvertire il linguaggio stesso della fotografia a colori, più descrittiva e diretta.

Il legame con la “Hollywood sul Nilo”

Non è tanto la scrittura dell’autore Premio Nobel per la Letteratura Nagib Mahfuz a tracciare quel filo conduttore che ci porta alla fotografia di Youssef Nabil, semmai alcuni passaggi de Il Nilo e la Sfinge, soprattutto quando l’autore, il celebre scrittore e viaggiatore francese Pierre Loti, cerca di immergersi nella contemplazione e nella ricerca del significato delle meraviglie dell’antico Egitto. Lo stato interiore della solitudine, quell’esigenza di assorbire le bellezze del paesaggio come mappa che è anche mentale, è comune ai due personaggi nonostante lo scarto temporale che li separa. Ma diversamente dall’approccio di Loti, dichiaratamente insofferente a trovare nel presente la continuità di un passato glorioso, il fotografo egiziano attraverso l’introiezione del paesaggio che lo circonda, sublima l’antico rendendolo più edulcorato e sognante. Fin da giovanissimo, infatti, Nabil è affascinato dal cinema egiziano d’epoca, in particolare quello dell’“età dell’oro”, popolato di eroi e dive e veicolato da immagini glamour pubblicitarie destinate alle riviste, ai poster e alle cartoline postali. “Hollywood sul Nilo”, anche detta “Hollywood d’Oriente”, è il soprannome dell’industria cinematografica egiziana che dal 1936, con l’apertura degli Studi Misr, raggiunge il massimo splendore negli anni Quaranta e Cinquanta. Un mondo patinato dove Nabil entra in punta di piedi, guardando alle scenografie, ai costumi, alle musiche e alla gestualità dei personaggi interpretati da grandi attrici e attori del tempo come Faten Hamama, Shadia (Fatma Ahmad Kamal Shaker), Leila Mourad, Omar Sharif e da alcune ballerine talentuose, tra cui Samia Gamal, TahiaCarioca e Naima Akef. Una fascinazione in cui entra in gioco anche la convinzione dell’incorruttibilità della bellezza, dell’eleganza e della sensualità propria di quella finzione atemporale che ritroviamo in tutto il suo lavoro fotografico.
I Saved my Belly Dancer # XXIV, 2015. Courtesy of the Artist and Nathalie Obadia Gallery Paris/Brussels

I Saved my Belly Dancer # XXIV, 2015. Courtesy of the Artist and Nathalie Obadia Gallery Paris/Brussels

Il contatto con grandi nomi del mondo della fotografia

Dichiarandosi nostalgico per via dell’affetto profondo per tutto ciò che é manuale, il fotografo fin dai primi anni Novanta sperimenta la tecnica della colorazione a mano delle fotografie in bianco e nero ai sali d’argento, certamente memore anche delle stampe vintage viste al Cairo nello studio del fotografo armeno Van Leo (Levon Alexander Boyadjian), erede di quella schiera di fotografi attivi in Egitto tra il XIX e il XX secolo, tra cui Felice Beato, Lehnert & Landrock, Abdullah Freres, Lekegian, Zangaki. La sfumatura di teatralità dei ritratti di Van Leo, oggi negli archivi dell’Arab Image Foundation, non deve essere sfuggita al giovane Youssef che si presenta da sé al noto fotografo diventandone amico fino al 2002, anno della sua morte. Fotografare le celebrità diventa un tòpos anche per lui, soprattutto quando la sua cifra espressiva si manifesta in maniera più matura, all’indomani dell’esperienza professionale come assistente di David LaChapelle a New York tra il 1993 e il 1994 e, successivamente a Parigi, del fotografo di moda Mario Testino conosciuto nel 1997 al Cairo, dove era impegnato per lo shooting di Vogue Inghilterra. Tra le numerose icone che egli immortala sono presenti i grandi personaggi della cultura e del mondo dello spettacolo, da Nagib Mahfuz a Mona Hatoum, da Zaha Hadid a Omar Sharif, da Catherine Deneuve a Nan Goldin. Con alcuni di loro instaura un rapporto di autentica amicizia come con Natacha Atlas, Tracey Emin, Shirin Neshat, Marina Abramovic.

Fotografia come specchio di sé

Self Portrait with Botticelli, Florence, 2009 Courtesy of the Artist Pinault Collection

Self Portrait with Botticelli, Florence, 2009 Courtesy of the Artist Pinault Collection

Spesso nel ritrarre l’altro, il fotografo coglie certi aspetti che sente appartenere anche alla propria personalità, riflettendovisi come in uno specchio. Il suo primo video You Never Left (2010), con Fanny Ardant e Tahar Rahim, è lo stesso Nabil a considerarlo una sorta di autoritratto, tema su cui torna esplicitamente nella serie Self-portrait, cogliendo l’occasione per interrogare se stesso sull’esistenza e sul significato della vita. In questi lavori è presente anche un senso di perdita che riguarda la sua sfera privata di uomo e artista cosmopolita messo di fronte alla scelta di dover rinunciare a vivere nel proprio paese. Il concetto diventa più ampio, arrivando a contemplare l’idea di un Oriente che ha cessato di esistere fuori dalla rappresentazione artistica. Una visione in cui l’amore e la morte sempre presenti – s’intrecciano anche in un’immagine come quella in cui il fotografo si autoritrae nella sala del museo degli Uffizi a Firenze, sdraiato e di spalle, davanti alla grande tavola della Primavera di Botticelli. Come non leggere l’analoga brama vivissima di una perpetuità che, come nel dialogo Eikoh Hosoe/Yukio Mishima: Barakei – Ordeal by Roses, è anche una dichiarazione d’amore per il Rinascimento?

Youssef Nabil

Youssef Nabil

© Manuela de Leonardis


Cairo, 1972. Inizia la carriera fotografica nel 1992 mettendo in scena tableaux ispirati a vecchi film egiziani. Dal 1999 sviluppa la sua fotografia dipinta a mano che affianca ritratti di personaggi famosi a scene in cui le inquietudini esi- stenziali sconfinano tra sogno e realtà. Le sue opere fanno parte di collezioni internazionali: François Pinault – Paris, LAC- MA Museum – Los Angeles, Louis Vuitton Foundation – Paris;, Sindika Dokolo Foundation – Luanda, MEP – Maison Européenne de la Photographie, Ma- thaf Arab Museum of Modern Art – Doha e Guggenheim Museum – Abu Dhabi. Sul suo lavoro sono state pubblicate le monografie Sleep in my arms (Autograph ABP & Michael Stevenson, 2007), I won’t let you die (Hatje Cantz, 2008) e Youssef Nabil (Flammarion, 2013).

di Manuela De Leonardis

La mostra di Youssef Nabil Once Upon a Dream, a cura di Matthieu Humery e Jean- Jacques Aillagon, sarà in esposizione a  Palazzo Grassi Pinault Collection Venezia fino al 10 gennaio 2021.
www.palazzograssi.it

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