19 Ottobre 2020 di Redazione Redazione

L’Editoriale de IL FOTOGRAFO #326, dedicato alla fotografia di paesaggio, è di Matteo Balduzzi, Curatore Museo di Fotografia Contemporanea:

Mi è spesso capitato nel corso di questi anni di attività di sentirmi rivolgere una stessa domanda, che riassumendo le varie versioni suona più o meno così: “Ha ancora senso la fotografia di paesaggio?”

Se la prendiamo alla lettera, e quindi nella sua accezione più ampia, ossia se abbia ancora senso fotografare il paesaggio, la risposta può considerarsi scontata. Il paesaggio – l’uso che facciamo del territorio, il rapporto con la natura, le relazioni che intessiamo con e nell’ambiente – è ed è destinato a rimanere l’ambito in cui si sviluppano e prendono forma le dinamiche, le relazioni e i conflitti che definiscono una società. Risulta quindi inevitabile, oggi come sempre è stato nella storia della rappresentazione, continuare a osservarlo, prendersene cura, indagarlo con gli strumenti della fotografia e dell’arte, per renderci conto con un attimo di anticipo di chi siamo e dove andiamo, o più semplicemente, con le parole di Luigi Ghirri, per orientarci di nuovo nello spazio e nel tempo.

È quindi probabile che la domanda sia allora se abbia senso quella fotografia di paesaggio, con un riferimento interno alla disciplina, tanto evidente da essere dato per scontato. Viaggio in Italia rappresenta in effetti un’eredità tuttora ingombrante con cui fare i conti, pur essendo passati oltre quarant’anni da quando i suoi autori hanno iniziato a ripercorrere luoghi marginali e visivamente inesplorati per rinnovare i codici del mezzo, in una fortunata coincidenza di soggetto e linguaggio, il cosa e il come della fotografia. L’esperienza della Scuola italiana di paesaggio, come è stata successivamente definita, ha saputo germogliare in molte direzioni, costituendo nel corso dei decenni un riferimento imprescindibile, un classico, non solo della fotografia ma della cultura italiana. La stagione della committenza pubblica ha consolidato – forse in parte anche congelato – il ruolo della fotografia all’interno delle istituzioni, attivando in ogni caso una relazione multidisciplinare con le scienze del territorio e sociali. Molti autori hanno ampliato con grande autonomia le proprie ricerche, raggiungendo nel corso degli anni una consacrazione internazionale e un riconosciuto valore nel mercato dell’arte. Quella fotografia di paesaggio ha prodotto un’in-luenza tanto estesa da costituire allo stesso tempo un elemento di confronto obbligato per i giovani artisti ma anche un modello estetico da imitare per generazioni di studenti e fotoamatori, almeno quanto lo era stata la fotografia umanista qualche decennio prima.

Piuttosto che discuterne il senso mi sembra interessante cercare di capire come si sia ampliata e sfaccettata, andando a rintracciare nella produzione più recente i legami con quella stagione. Mi piace pensare che, anche una volta consolidato, un linguaggio continui a produrre senso in due direzioni principali e complementari, una interna e una esterna. La prima attraverso l’inesauribile tensione degli artisti a esplorare i margini estremi del linguaggio stesso, con strategie che vanno dalla più ortodossa ripetizione alla ricerca in direzioni più ibride, frammentate, performative, rigorosamente esatte, autobiografiche, narrative, spesso infinitamente più seducenti grazie all’ipercontrollo estetico che la filiera del digitale favorisce. La seconda, giocata sulla riconoscibilità, applicando un pattern visivo noto in contesti divergenti e mettendo l’accento sulle pratiche e i processi che dalle immagini si innescano, per sperimentare percorsi articolati e partecipati, strategie di comunicazione visiva, forme complesse di attivismo politico e sociale.

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