9 Febbraio 2019 di Vanessa Avatar

Aniello Barone

L’emarginazione, la perdita delle radici e il degrado sono alcune delle condizioni che Aniello Barone vuole riscattare con la sua ricerca, utilizzando lo sguardo lucido dello scienziato sociale e quello solidale dell’uomo.
Detta Innominata è una strada del quartiere San Giovanni a Teduccio, nella periferia orientale di Napoli, situato tra le pendici del Vesuvio e il mare. Il suo nome che suona come un ossimoro racchiude la sua identità di luogo orfano e precario, frutto della storia travagliata di quel territorio. Qui i grandi insediamenti industriali realizzati durante la Ricostruzione hanno chiuso i battenti con la crisi degli anni Settanta e la più recente delocalizzazione, generando disoccupazione e degrado ambientale, mai sanati dalla promessa riqualificazione. È in questa via che Aniello Barone è nato e vive tuttora. Ne conosce ogni pietra, voce e storia.

Aniello Barone: «Appena scatto una foto so già che essa ha a che fare con un pensiero passato»

Qui ha voluto realizzare uno dei suoi progetti fotografici più importanti, Detta Innominata, appunto. Utilizzando l’approccio scientifico della sua formazione di sociologo, ha cercato di riscattare quel piccolo universo dallo stigma della marginalità e del degrado per restituirgli bellezza e speranza. Il lavoro, durato dieci anni, ha preso forma in un bianco e nero denso e contrastato, popolato di luoghi scomposti e personaggi ora sfuggenti come fantasmi, ora vivi e carnali. Barone si interessa da sempre alle periferie urbane e sociali, soffermandosi sulla marginalità e l’alienazione che regnano in territori così mutevoli. Sono gli aspetti che affronta anche nel lavoro sull’immigrazione in Italia degli anni Novanta, da cui è nato il libro La comunità accanto. Sulla stessa onda ha condotto una ricerca d’impronta etnografica sulla comunità nigeriana degli Igbo, insediata in Campania. Anche in questo caso ha voluto superare gli stereotipi negativi con cui è ancora etichettato questo gruppo, per concentrarsi sul modo in cui esso coltiva in terra straniera le proprie tradizioni e i riti religiosi. Il reportage di Aniello Barone non si esaurisce con la sua esplorazione da scienziato sociale; in mezzo ci sono la sua curiosità, la storia personale, la percezione della precarietà in un continuo rimando tra passato e presente. «Appena scatto una foto so già che essa ha a che fare con un pensiero passato», afferma. Una riflessione, questa, che lo conduce al progetto sull’Archivio Storico della “Real Casa Santa dell’Annunziata” di Napoli, un brefotrofio attivo fino alla metà del secolo scorso. Qui ha ripreso alcuni oggetti deposti insieme ai neonati abbandonati nella ruota degli esposti: pezzi di tessuto, grani di rosario, medagliette spezzate. Segni di riconoscimento per una riunificazione futura ma anche tracce di memoria e di legami interrotti sul nascere. In queste immagini il bianco e nero è meno inciso, la gamma tonale ampia e più ravvicinata, mentre la ripresa racconta di quei piccoli lasciti che hanno fermato il tempo ma non lo scorrere della vita degli uomini.

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