19 Luglio 2021 di Redazione Redazione

Nell’anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992 a Palermo, vi riproponiamo l’intervista di Francesca Marani a Tony Gentile. Uno scatto che ritrae Paolo Borsellino e l’amico Giovanni Falcone, pochi mesi prima della loro morte, divenuto uno dei più celebri della storia della fotografia.

Borsellino e Falcone nello scatto di Tony Gentile

Ci sono persone che sembrano segnate da un destino particolare. È come se nelle loro esistenze le coincidenze e gli incontri confluissero ineluttabilmente verso un’unica direzione, anche se basterebbe pochissimo per scombinare le carte in tavola. A ben guardare, potrebbe essere una caratteristica comune all’esperienza di ciascun individuo, eppure ci sono casi alquanto singolari che sembrano distinguersi tra gli altri.

Questa è l’impressione che si avverte quando si parla con Tony Gentile, fotografo nato a Palermo nel 1964 e membro dell’agenzia di stampa Reuters. All’età di ventott’anni, Gentile scatta la fotografia più importante della sua carriera: il ritratto in bianco e nero di Giovanni Falcone che si avvicina sorridente a Paolo Borsellino per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Un’immagine sincera, rappresentativa di un rapporto di amicizia e di complicità, destinata a trasformarsi in un’icona suo malgrado quando, qualche mese dopo, i due magistrati perdono la vita assassinati dalla mafia. Ma facciamo un passo indietro.

Com’è nata la passione per la professione di fotografo?

«Quand’ero un giovane studente militavo in politica ed ero molto attento alle questioni sociali. Alle manifestazioni, che frequentavo assiduamente, erano sempre presenti Letizia Battaglia e Franco Zecchin. Due personalità forti, difficili da ignorare. Mi affascinava il loro stile di vita, l’atteggiamento, il modo in cui si muovevano e ovviamente le straordinarie fotografie che scattavano e che osservavo pubblicate sulle pagine del quotidiano L’Ora. La passione per la fotografia che avevo già maturato fin da bambino, si rafforzava sul loro esempio. Desideravo fare il loro mestiere, divenire narratore della realtà.

Un desiderio che si concretizza in maniera del tutto fortuita nel 1989, quando un amico mi avverte di un’inserzione su un giornale. L’agenzia Sintesi di Roma cercava un fotografo in grado di coprire la cronaca di Palermo. Così inizia la mia storia professionale. Presto comincio a pubblicare su diverse testate nazionali e a collaborare con il Giornale di Sicilia».

Come fotografo di cronaca a Palermo, nei primi anni Novanta, ti sei ritrovato a documentare fatti estremamente importanti non solo a livello locale, ma anche nazionale.

«E quella è stata un’altra casualità. Nonostante professionalmente non avessi ancora accumulato molta esperienza, fin da subito mi sono trovato calato all’interno di un universo di grandi conflitti e cambiamenti politici che investivano la città di Palermo. L’idea di un giovane fotoreporter, solitamente, è quella di andare per il mondo, partire alla volta di un Paese lontano, ma io non avevo bisogno di andare da nessuna parte. La guerra era lì, di fronte a me. In casa, nella mia città».

Cosa significava relazionarsi ogni giorno con la morte e la violenza?

«Essere un fotografo di cronaca in quegli anni in Sicilia significava scontrarsi inevitabilmente con i morti ammazzati per strada e doversi misurare con la documentazione di un fatto mafioso. Attendevo con ansia il momento in cui avrei dovuto fotografare un morto ammazzato perché non sapevo quale sarebbe stata la mia reazione. La mia memoria visiva tuttavia era già costellata di immagini di morte, ero cresciuto con quelle fotografie stampate sui giornali. Quando poi è successo sul serio, quando sono stato chiamato a fotografare il mio primo omicidio, nel maggio del 1990, la macchina fotografica, come spesso accade, ha fatto da filtro e, nonostante l’impressione iniziale, sono riuscito a portare a termine il mio compito.

In fondo, un po’ cinicamente, ti concentri solo sul lavoro: portare a casa una buona fotografia. Forse, è un bene perché così non hai il tempo per lasciarti coinvolgere emotivamente».

Borsellino

Alla fine di marzo del 1992 realizzi il noto ritratto di Falcone e Borsellino. Quali sono gli oneri e i privilegi derivanti dall’essere l’autore di una fotografia iconica, simbolo della lotta per la legalità?

«Il giorno in cui ho realizzato quello scatto non avrei certo potuto prevedere il percorso che l’immagine avrebbe fatto, la vita che avrebbe avuto, anche indipendentemente da me. Mi trovavo a un convegno al quale erano presenti i due giudici come relatori, dovevo coprire l’evento su commissione di un giornale locale. A un certo punto Falcone si avvicina a Borsellino, i due si dicono qualcosa e poi scoppiano in una risata fragorosa che richiama l’attenzione degli astanti.

È una frazione di secondo, salto davanti a loro e colgo l’attimo. È solo dopo la strage di Capaci del 23 maggio che recupero lo scatto e lo invio a vari giornali che prontamente l’archiviano in un cassetto e dopo quella di via D’Amelio del 19 luglio, la foto è pubblicata sulle prime pagine di tanti quotidiani italiani. Da quel giorno, sarà stampata sulle magliette, appesa ai muri, conosciuta da tutti.

E questo è senza dubbio il lato positivo: aver creato una fotografia che ha il tempo dell’eternità, un’immagine che i ragazzi possono osservare sui libri di storia, un simbolo positivo per le future generazioni».

di Francesca Marani

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