La fotografia lo accompagna fin dalla giovane età, da quando si divertiva in camera oscura a scoprire l’alchimia e la magia dello sviluppo in bianco e nero

31 Dicembre 2018 di Vanessa Avatar

Carlo Borlenghi

Amante delle regate e dell’avventura, ha saputo trasformare una passione in una professione. Tra i migliori fotografi di vela, il suo nome è conosciuto e rispettato a livello internazionale. Da oltre trent’anni segue tutti i più importanti eventi nautici.

Intervista a Carlo Borlenghi

La fotografia lo accompagna fin dalla giovane età, da quando si divertiva in camera oscura a scoprire l’alchimia e la magia dello sviluppo in bianco e nero. A quel tempo era semplicemente un hobby coltivato in parallelo agli studi in ingegneria. «I primi scatti», ci confida, «li ho realizzati ai miei amici che andavano in barca durante il fine settimana sul lago di Como. A loro vendevo le fotografie per racimolare un po’ di soldi per l’università. Con la vecchia Rollei di mio padre, oltre alle foto alle barche, scattavo ritratti. Con il tempo, la pratica, seguendo le regate che passavano sul lago, riuscì a perfezionarmi. All’epoca non sapevo nulla di nautica. È stato un lavoro di cesellatura costante e di buoni consigli ricevuti dagli sportivi in gara. Quello che spesso mi dicevano era di avvicinarmi il più possibile all’azione. Poi, in occasione di un Natale, mi fu regalata una Nikon con la quale ho lavorato per un anno fino a quando me la rubarono durante un viaggio. Al ritorno, acquistai una Canon perché la ritenevo più adatta alle mie esigenze».

La svolta professionale giunse nel 1980, quando Vogue Italia decise di creare una pubblicazione dedicata alla moda sportiva: era Uomo Mare, dodici numeri annuali interamente dedicati al mare. «Mi chiamarono subito», racconta Carlo. «All’inizio credevo di riuscire a proseguire anche con l’università, ma gli impegni e la mole di lavoro mi costrinsero ad abbandonare gli studi. È stata una collaborazione durata dodici anni, fino a quando chiusero la redazione. La ricordo come una bellissima esperienza, molto formativa; oltretutto, avevo gli stessi diritti dei grandi fotografi di moda di Vogue, e al tempo era un bel passe-partout».

Per chi vestiva i panni dell’apripista in un settore, quello della nautica in Italia, del tutto nuovo, era importante conoscere quello che allora offriva il panorama internazionale in termini di proposta iconografica. Oggi abbiamo tutto a portata di clic, è facile scoprire attraverso Internet l’offerta visiva della concorrenza, ma quasi quarant’anni fa il confronto con i colleghi inglesi e americani non era certo facile. E qui, la testimonianza di Carlo Borlenghi sfiora la narrazione epica:
«Visto che si prospettava un percorso nel campo della nautica, a quel punto iniziai a documentarmi sui colleghi in giro per il mondo. Scoprii Rosefeld negli Stati Uniti e una famiglia di fotografi sull’isola di Wight; sia il figlio sia il padre e il nonno vi si dedicavano. Cercando nelle librerie di Milano trovai, non senza fatica, una pubblicazione del nonno inglese. Erano immagini molto belle, per lo più ritratti di barche con la  vela intera; anche quando non c’era vento, l’oggetto barca era rappresentato magnificamente, in parte grazie anche al tipo di pellicola e di stampa utilizzate. Inizialmente, mi basai su quel tipo di composizione, ma mi resi immediatamente conto che le mie immagini non erano paragonabili. Compresi ben presto che era cambiata un’epoca. Le barche erano diverse; c’era molto meno legno e design e materiali erano cambiati radicalmente. Le linee delle nuove imbarcazioni non erano più così belle, ma erano invece molto più veloci. Era come paragonare un’auto classica a una vettura di Formula Uno. Pensai di cambiare stile e di concentrarmi su uno sguardo personale. Ridussi, per prima cosa, il punto di osservazione; non fui più interessato alla barca intera, ma mi concentrai sui particolari, sui dettagli. Trovai una mia lettura stravolgendo completamente lo stile; una modalità interpretativa che piacque molto a Vogue anche perché non erano interessati al ritratto. Da lì, ogni anno cercai sempre di offrire qualcosa di nuovo e in questo senso le novità tecnologiche, gli sviluppi degli strumenti non solo fotografici mi aiutarono molto. Le fotografie, solitamente, le scattavo da un gommone o direttamente a bordo della barca. Erano rare le occasioni di scattare dall’elicottero dato il costo elevato dell’affitto del mezzo».

Carlo Borlenghi tra i migliori fotografi di vela

Sapevamo che Carlo non ha mai imparato a nuotare e questo l’abbiamo sempre considerato curioso rispetto a un uomo che trascorre in mare buona parte dell’anno. L’intervista ci ha dato l’occasione di comprendere che questo grande timore dell’acqua si coglie anche nel suo sguardo:
«L’acqua non è proprio il mio ambiente. Potrei dirti che questo mi è servito ad avere un diverso modo di guardare alla natura e alle sue forze. Credo che nelle immagini traspaia questa soggezione». Delle sue foto ci hanno sempre affascinato la luce e l’enfasi che riesce a restituire del momento.

Si comprende, guardando le immagini, quanto sia per lui un elemento fondamentale della narrazione visiva. Ci dice, infatti:
«Mi spiace che abbiano perso l’abitudine di realizzare delle regate lunghe. Normalmente la partenza ora è a mezzogiorno o all’una, il momento peggiore per scattare delle fotografie. La media e la lunga di ogni regata, invece, iniziavano verso le sei di sera. Mi ricordo di una partenza alle Hawaii di una regata lunga con una luce incredibile. Questo ti aiuta moltissimo, difficilmente puoi sbagliare. Si portava sempre a casa un risultato di valore. Infatti, si vedevano delle doppie pagine molto più di oggi. Oggi, è molto più difficile quando una regata a Porto Cervo inizia a mezzogiorno e alle tre sono già rientrati».

La storia degli esordi e la sua esperienza maturata in un mondo dove il mercato editoriale negli anni si è trasformato considerevolmente tratteggiano una realtà neppure molto lontana da un punto di vista temporale, ma certamente diversa e distante rispetto a chi è oggi agli inizi. Anche il ruolo e la professione del fotografo stanno mutando in riferimento a una domanda alimentata da altre necessità. Anche lui, da professionista al passo con i tempi, non si sottrae alla riflessione: «In questo momento sto constatando che è sempre più difficile il lavoro del fotografo “puro”. Sento che la direzione in cui ci si sta muovendo è il video. Sono molte le richieste di mini storie, soprattutto per tutta la parte social che interessa alle aziende. In particolare, per Instagram. Alcuni clienti ne richiedono almeno due o  tre al giorno. Se da un lato voglio tener duro con la foto, desidero comunque andare avanti e mantenermi al passo con le novità».

Ha solcato i mari del mondo e ha fotografato le più belle barche da regata impegnate nelle competizioni internazionali. Una professione, la sua, sicuramente ricca di soddisfazioni, ma anche dove non mancano i rischi del mestiere. Ha mai avuto paura per la sua vita?
«Molte volte», risponde. «La più brutta, forse, è stata l’anno scorso nell’incidente con il catamarano di Casiraghi sul lago di Garda. Ci è passato sopra. Noi pensavamo di essere nella posizione giusta, lui anche e alla fine ci è venuto addosso portando via tutta la parte superiore del gommone. Il catamarano si è rovesciato e ha spaccato l’albero. Erano tutti in acqua e noi eravamo per terra. Ho anche spaccato l’obiettivo facendomi male. Speravo che non ci toccasse il timone che, per fortuna, è passato sopra le nostre teste».

Un consiglio per i fotografi agli inizi?
«Un consiglio che potrei dare a chi si vuole avvicinare a questo genere di fotografia e che do anche ai ragazzi che lavorano con me è di aspettare il momento migliore. Vedo che hanno sempre molta fretta di fare uscire la foto o di pubblicarla su Internet. Secondo me, invece, vale la pena aspettare, anche perché il tuo nome rimane e, se le condizioni di quel giorno non erano le migliori, la foto non sarà valida. È sicuramente un atteggiamento da vecchia scuola, visto il momento in cui viviamo – la voglia di mostrarsi, soprattutto online, è tanta – ma è necessario pensare a medio e lungo termine».

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