13 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Due volti, stretti in un primo piano molto ravvicinato, si sfiorano con affetto, incuranti del nostro osservare. Portano ancora i segni di quello che, con tutta probabilità, pochi istanti prima dev’essere stato un lungo abbraccio.

Complice l’inquadratura, tutto sembra suggerire un coinvolgimento profondo tra i due soggetti ripresi, tuttavia l’atmosfera è sospesa e una strana tensione pervade l’immagine. C’è qualcosa che non torna, qualcosa che tradisce la vicinanza emotiva suggerita dalla posizione delle spalle, dalla vicinanza dei volti e dal contatto dei corpi dei due protagonisti.

Una nota fredda, che corre lungo la linea dei loro sguardi. I loro occhi infatti non si incrociano e, come incapaci di sentirsi altrimenti, non convergono neppure nella stessa direzione. Ciò crea una sorta di frattura nella dimensione narrativa dello scatto, lasciandoci intravedere sotto il calore di quel contatto fisico, una distanza forse incolmabile.

È una foto eloquente, che riesce a sintetizzare bene i contenuti e le atmosfere del film a cui rimanda, cioè L’eclisse di Michelangelo Antonioni. Ultimo capitolo di quella che è stata definita la trilogia dell’incomunicabilità, questa pellicola, come le due precedenti (intitolate L’avventura e La notte) mostra infatti personaggi emotivamente inariditi, incapaci di liberare le loro fragili individualità dalla dittatura dell’Io e, dunque, di un reale contatto.

Come un bacio dato attraverso un vetro, l’abbraccio colto da Sergio Strizzi è quindi carico di pulsioni contrastanti, sintomatiche di quella profonda impasse emotiva ed esistenziale raccontata dal celebre regista in questo memorabile film

Alain Delon e Monica Vitti ne “L’Eclisse”, 1962. Fotografia di scena.
© foto Sergio Strizzi. Dalla mostra Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti.

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