È morto il fotografo e giornalista Piergiorgio Branzi, uno degli animatori del rinnovamento del linguaggio fotografico in Italia.

29 Agosto 2022 di Redazione Redazione

È scomparso ieri, all’età di novantatré anni, Piergiorgio Branzi. Giornalista per mestiere, fotografo per passione, ha puntato il suo sguardo colto e rigoroso sul rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Nel “realismo metafisico” delle sue visioni trapela anche la parte più nascosta di sé. «Anche se quel “fondo di bicchiere” è rivolto verso l’esterno, l’immagine proviene dalla nostra intimità, ci racconta, ci smaschera».

Fotografare, dunque, secondo Branzi è un’azione compromettente per l’autore perché rivela molto di lui. Anche quando nel lontano 1952 vede per la prima volta gli scatti di Cartier-Bresson in una mostra a Palazzo Strozzi e ne resta ammaliato, non immagina che, a distanza di tempo, il fascino di quelle eleganti istantanee gli permetterà di scoprire qualcosa di più prezioso e insospettabile: l’uomo Bresson.

Dopo quella mostra compra una Ferrania Condor e, con lo sguardo pieno del rigore rinascimentale di Firenze, la sua città, e della folgorazione per l’istante decisivo bressoniano, comincia a scattare.

Piergiorgio Branzi e la fotografia

Sono anni di fermento per la fotografia italiana, grazie alla nascita di diversi circoli amatoriali. Con Alfredo Camisa e Mario Giacomelli, nel 1954, entra nel “Misa” di Senigallia e, tre anni dopo, nel sodalizio milanese “La Bussola”. Presto, però, polemizza con il fondatore di quest’ultimo, Giuseppe Cavalli, e con la sua concezione assolutistica della “fotografia come arte”.

Nella sua avversione al formalismo, Branzi incontra l’alleanza di Mario Giacomelli, con il quale sostiene la necessità di rinnovare il linguaggio fotografico, oltre a condividere l’idea di un bianco e nero espressionista, materico e contrastato, che con il tempo declinerà in chiave metafisica.

Intanto il boom economico del dopoguerra spinge molti fotografi a rivolgere il loro sguardo all’Italia in trasformazione. Branzi convince suo cognato, possessore di una Guzzi 500, a fare insieme un viaggio nel Centro-Sud Italia e poi in Spagna.

È durante questa “missione” che decide di intraprendere la strada del giornalismo. Al ritorno inizia a collaborare con il settimanale Il Mondo di Pannunzio e nel 1960 è assunto dalla Rai come videoreporter. Due anni dopo, il direttore del telegiornale Enzo Biagi lo invia a Mosca come corrispondente. Nella valigia Branzi mette anche la sua Leica che utilizzerà solo dopo che le autorità sovietiche avranno accertato che egli non sia una spia.

Mentre per lavoro segue le fumose vicende dell’impero di Brežnev, con il suo “fondo di bicchiere” ritrae la quotidianità e l’umanità di una città altrettanto sconosciuta all’Occidente. Nasce così il Diario moscovita che rende pubblico solo dopo un quarto di secolo, perché in piena Guerra Fredda non voleva che le sue fotografie fossero usate per la propaganda antisovietica.

Nel 1966, dopo un periodo di permanenza a Parigi, rientra in Italia e lascia la fotografia per la pittura. Tornerà a scattare solo negli anni Novanta e, in seguito, sperimenterà con la tecnologia digitale e con il suo linguaggio.

di Emanuela Costantini

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