17 Gennaio 2020 di Vanessa Avatar

Fulvio Roiter e la fotografia

Cresciuto nel fertile humus fotoamatoriale del Dopoguerra, Fulvio Roiter è diventato professionista con il reportage di viaggio in cui rivela il suo innato senso estetico e la capacità di cogliere il lato sorprendente della prosa quotidiana.
«Voglio andare in Sicilia per vedere se posso fare il fotografo o il chimico», disse una sera a suo padre che sognava per il primogenito un futuro meno duro e incerto del suo, nel nascente polo petrolchimico di Marghera. Era il 1953 e il giovane Fulvio viveva a Meolo, nell’entroterra veneziano. Proprio suo padre una decina di anni prima gli aveva regalato una modesta Welta 24×36 con cui, da autodidatta, aveva ripreso in lungo e in largo il suo territorio. Alcune di quelle immagini le aveva portate al Circolo Fotografico “La Gondola” di Venezia, dove era riuscito a catturare l’attenzione di Paolo Monti e Gino Bolognini. I due finiscono per “adottarlo” mettendogli a disposizione la loro cultura, i loro libri e le conoscenze tecniche nella ripresa e nella camera oscura. Tornando a quella sera d’inverno del 1953, Fulvio Roiter ottiene il benestare del padre per il suo viaggio in Sicilia. Ma si tratta di un ultimatum: al ritorno dovrà decidere cosa fare da grande. Sull’isola Fulvio trova un’Italia ancora arretrata che per la sua ripresa non punta all’industrializzazione come al Nord ma alla riforma agraria e a sterili politiche assistenziali. Percorre tutta la Sicilia in bicicletta e, scatto dopo scatto, costruisce un ricco e vario percorso visivo. Dopo quasi due mesi rientra a Meolo e si affretta a sviluppare e a stampare in casa le sue fotografie. Ne spedisce un pacchetto alla prestigiosa casa editrice svizzera Guilde du Livre e aspetta; da quella risposta dipende il suo futuro. Finalmente il direttore gli scrive entusiasta, proponendogli di includere alcuni ritratti di bambini siciliani in un libro di prossima uscita. Inizia così una fruttuosa collaborazione con l’editore di Losanna che l’anno seguente pubblica il volume Venise à fleur d’eau e, subito dopo, Ombrie. Terre de Saint François con cui riceve a Parigi il Premio Nadar nel 1956. A questi seguiranno molti altri volumi di fotografie riprese in Italia e all’estero, in Spagna, Messico, Brasile e Turchia, dove, più che alimentare immaginari esotici e lontani, rivela la sua indole di cacciatore di bellezza, pronto ad accogliere in modo istintivo lo stupore con cui la realtà si presenta ai suoi occhi. Il tempo e l’esperienza, il ritorno nei suoi luoghi come Venezia, sua città di adozione, o in Paesi già visitati come il Brasile, non hanno mai tolto freschezza alle sue fotografie. «Dicono che l’abitudine distrugga l’occhio, che finisci con il non vedere niente. Può darsi, ma non vale per me, forse perché non ho mai perso la curiosità e la capacità di emozionarmi», diceva qualche anno fa. Un’idea questa che filtra nei suoi scatti essenziali e poetici della realtà, grazie ai quali ha lasciato una traccia profonda nella storia della fotografia italiana.

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Bruges (Belgio), 1961 ©Courtesy Archivio Storico Circolo Fotografico La Gondola

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