14 Luglio 2019 di Vanessa Avatar

Molti degli estimatori di Mario Giacomelli ( per approfondimenti sull’autore clicca qui) si chiedono con quale macchina fotografica il Maestro abbia scattato le sue spettacolari fotografie. Nel 2000 Giacomelli girava ancora con quella stessa grosso formato vecchia di 45 anni, foderata di nastro adesivo per tenerne insieme i pezzi e con un mirino da cui la realtà quasi non si vedeva più se non sottoforma di scure sagome lontane. La sua mitica Kobell, Giacomelli l’acquista nel 1955, e nel corso degli anni, nel farsi chiaro il suo stile, la personalizza cambiando l’obiettivo con un Eliar a diaframma tutto chiuso con tempi lunghi. Modifica il formato del negativo, 56×74 con rullino 6×6 e con rapporto 2/4 adatto per il formato della carta 30×40. L’aver modificato l’obiettivo, non più collegato con lo scatto, lo obbliga a fotografare unicamente con l’uso del cavetto. Certo non è la sua, una macchina per passare inosservati o per muoversi agili e cogliere l’attimo, è una macchina che detta tempi lenti (tra l’altro pesantissima), con cui il fotografo dialoga con la sua interiorità immettendosi nel mondo.
Giacomelli ha modificato così fortemente il suo apparecchio che alla fine, della Kobell è rimasta solo la scatola: il mezzo tecnologico, in questo processo di metamorfosi, smette di essere un oggetto preconfezionato, per divenire parte dell’artista stesso e della sua forza creativa. Una sintonizzazione reciproca, che fa dire a Giacomelli: “Io il profumo che ha il fieno dopo la pioggia, l’ho imparato dopo che ho comperato la mia macchina fotografica”.

Mario Giacomelli: io il profumo che ha il fieno dopo la pioggia, l’ho imparato dopo che ho comperato la mia macchina fotografica

La sua Kobell Giacomelli la tiene tra le mani, trattenendo il respiro l’attimo prima dello scatto, incurante degli schizzi di acqua salata del mare, o dell’umidità della terra quando l’appoggia sull’erba per sistemare lo scenario da fotografare. Un atteggiamento solo apparentemente incurante, perchè in realtà dettato dalla certezza che la sua macchina fotografica fosse una sorta di prolungamento del suo stesso corpo e della sua idea (parole dell’artista), perfettamente in sintonia con lui, una cosa “viva”, con una sua personalità, tanto che, messo di fronte ad un nuovo apparecchio, Giacomelli non potè scattare nemmeno una foto, per non tradire la sua macchina, per paura che “lei” si offendesse (parole dell’artista). Cosa dire? Quando la vita  e l’arte si fondono… Piegando la tecnica al perseguimento dell’idea che preme per uscire (Fotografia come esigenza esistenziale), Giacomelli applica la sua creatività a quelle che si potrebbero chiamare “vie di fuga dalla regola”, per arrivare a un utilizzo estremo della macchina fotografica, per cui essa diviene un meccanismo atto a decostruire il reale, o meglio a decostruire l’ideale comune di un mondo statico. Giacomelli fotografa un mondo fatto di frammenti che, incastonati tra loro, assumono un significato diverso da ciò che rappresentavano nella dimensione quotidiana. Il soggetto è riposto in uno spazio astratto, quando sfocato, quando cancellato dai bianchi bruciati, o rigato dalla luce muovendo la macchina al momento dello scatto, confuso nella sovrimpressione, deformato, decontestualizzato da tagli ravvicinati, reso bidimensionale e tragico dall’uso del flash anche di giorno: non è il soggetto fotografico che conta ma l’idea che sortisce attraverso di esso. Sono rappresentate le molteplici relazioni delle cose tra loro e con il soggetto che le sperimenta, in una “espressione dinamica” non convenzionale, fondata sulla vertigine e lo spaesamento, sulla consapevolezza che il soggetto non può essere rappresentato in maniera definitiva e statica. La produzione fotografica ne risulta nel suo insieme un sistema di parti intercomunicanti: ogni foto presenta rimandi ad altre, nella ripetizione di elementi iconografici e simbolici (come le geometrie del cerchio e della X; l’elemento della riga/ruga, del graffio e della cicatrice; il ripresentarsi di un soggetto che sta sullorlo del dissolvimento, ecc.). Ogni serie composta non rappresenta un capitolo ormai chiuso: il fotografo a più riprese, nel corso degli anni, le ridefinisce, andando spesso a riesumare immagini di una vecchia serie per rivitalizzarle in un nuovo discorso, attraverso le sovrimpressioni, come per “dare respiro alle cose grazie a questo pretesto chiamato fotografia”. In tutto questo lavorio ritualizzato Giacomelli stesso è chiamato in gioco: lui si sente veramente vivo nella fotografia.

Katiuscia Biondi, Archivio Mario Giacomelli – Rita Giacomelli

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