8 Aprile 2019 di Vanessa Avatar

Ripercorrere la carriera di Giampiero Corelli significa rileggere e scoprire con occhi diversi la storia del nostro presente. Nelle trame di un racconto corale, che si compone di immagini e di voci sussurrate come racconti personali, l’autore rivela quella dialettica tra fotografo e soggetto che gli permette di andare oltre il comune immaginario mediatico e di superare la soglia dell’intimità. Nelle sue indagini sociali, il fotoreporter ravennate sceglie la traccia del femminile per entrare nel cuore degli eventi. Il suo sguardo si avvicina alle donne come guide di una conoscenza sensibile del particolare, con il fine di risalire a quella universale. Per questo, i suoi reportage sono vere e proprie fessure nella superficie del visibile. Segmenti di vita profondi come le relazioni che instaura con i suoi soggetti e, in particolare, con quelle donne che incontra nei luoghi e nei contesti più nascosti, lontane dalla vita mondana o agiata, e sempre più vicine alle realtà marginali e periferiche del mondo.

Dalle immigrate al servizio degli anziani, alle madri, alle donne che vivono nelle carceri o che scelgono le missioni militari, fino ai contesti della tradizione culturale della Romagna come le ballerine di liscio o le protagoniste del panorama musicale underground, Giampiero Corelli racconta esperienze e vite vissute che, insieme, compongono un mosaico complesso della femminilità e del ruolo che le donne scelgono di assumere in quanto individui, al di là delle dinamiche e dei confini sociali. Tuttavia, non solo all’universo femminile il reporter ravennate volge il suo sguardo, ma al senso più ampio delle marginalità. Il suo ultimo lavoro, per esempio, pur sviluppandosi sulla traccia di una storia particolare che si erge a simbolo di una riflessione più vasta, trova il centro del suo interesse nella figura di Dante Alighieri, costretto all’esilio nella città di Ravenna. E proprio qui, in occasione dei 750 anni dalla sua nascita, attraverso lo sguardo di Giampiero Corelli, le turbolente vicende biografiche del Sommo Poeta si fanno metafora di una condizione umana ancora molto diffusa, tra gli esuli di oggi, naufraghi del Mediterraneo senza possibilità di riscatto, migranti in fuga all’ombra dei diritti umani e della solidarietà dell’Occidente.

Intervista a Giampiero Corelli

Come inizia il tuo percorso nel fotogiornalismo? Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a intraprendere questo mestiere?
«Il mio rapporto con la fotografia è iniziato prestissimo, a soli 16 anni. Allora mi interessava raccontare il disagio giovanile del mio paese e di noi giovanissimi, con un approccio molto vicino al fotogiornalismo e alla fotografia sociale. Ma l’inizio del mio percorso nel mondo della fotografia è legato, soprattutto, alla figura di mio padre, fotografo di paese, a S. Alberto (RA), impegnato nel documentare tutti gli avvenimenti locali dagli anni ’50 agli anni ‘70. In quel periodo i fotografi erano pochissimi nei piccoli centri, perciò mio padre era un punto di riferimento importante nel circondario; fotografava tutto, dalle cerimonie private alle manifestazioni politiche. Ecco, io sono cresciuto guardando lui quando fotografava e lavorava in camera oscura. Altra ragione preminente che mi ha portato ad avvicinarmi al fotogiornalismo  è stato il sapore di libertà; questo tipo di fotografia mi permette in moltissimi casi di non avere orari, di essere in un certo qual modo in balia degli eventi e di lasciarmi trasportare da ciò che più mi interessa, dall’imprevisto o dalle sfumature inedite delle situazioni. Raccontare con le immagini le storie delle persone o dei luoghi è, a mio avviso, un’esperienza meravigliosa, unica e irripetibile. Tutto questo esprime il mio modo di vivere il fotogiornalismo, nonostante oggi sia sempre più difficile esercitare questo bellissimo mestiere».

La figura della donna è una traccia tematica costante nel tuo lavoro. Qual è stato il primo progetto con cui hai iniziato a conoscere e raccontare l’universo femminile?
«Il mio primo progetto sul tema legato alla donna è stato Tempi diversi , un lavoro che mi ha dato la possibilità di entrare in un convento di suore di clausura per raccontare la storia di chi sceglie di isolarsi dal mondo per dedicarsi totalmente alla preghiera, alla contemplazione e alla spiritualità. Ho subito sentito un forte interesse nei confronti di queste persone e delle loro passioni, a mio avviso, rivoluzionarie. E così, dopo questo primo lavoro, ho iniziato a raccontare le scelte di vita che le donne compiono in vari contesti, come madri, come carcerate o come badanti, tra gli sfollati del terremoto de L’Aquila o nelle missioni militari in Afghanistan. La figura femminile è sempre stata oggetto della mia attenzione, sia quando si ritrova a subire situazioni che quando decide di trasformare la propria vita».

Con La bellezza dentro. Donne e madri nelle carceri italiane hai esplorato condizioni umane e sociali molto delicate. Puoi spiegare come si sviluppa un progetto fotografico così complesso?
«È un progetto che ho iniziato circa dieci anni fa, un lavoro complesso che mi ha portato e ancora mi porta in giro per l’Italia, negli istituti penitenziari femminili– sono quasi una ventina quelli visitati sino a oggi – per osservare dall’interno le condizioni di vita, sociali ed emotive della donna. Qui ho trovato mondi e persone molto diverse tra loro, spesso bisognose di aiuto e di ascolto. Il progetto ha coinvolto non solo donne detenute, ma tutto l’universo femminile che si incontra dentro queste mura, comprese le guardie carcerarie, le assistenti sociali e le volontarie. In questi luoghi chiusi, in dimensioni lontane e stranianti, dove gli sguardi e le espressioni sono tutti amplificati, queste persone mi raccontano le loro vite e io, con la mia fotografia, ne prendo un pezzo, un momento, un respiro, una lacrima o un sorriso. Per realizzare un progetto di questo genere è necessaria una grande determinazione, viste le ingenti difficoltà burocratiche che si incontrano, dalla richiesta dei permessi alle lunghe tempistiche che spesso rallentano o interrompono il lavoro. Tuttora mi reco nei luoghi dove sono già stato o in quelli non ancora visitati con l’interesse ancora vivo di portare a compimento un reportage a tutto tondo sulle condizioni femminili nelle carceri italiane».

In Dante esule crei una connessione tra il padre della lingua italiana e la vita dei migranti. Puoi raccontare cosa significa per te questo progetto nell’ottica dell’attualità?
«A Dante, il padre della lingua italiana, è toccata l’ingrata sorte di essere esule nella sua terra; per questo rappresenta per me il punto di partenza per leggere e comprendere l’Italia di oggi, attraverso le vite e le esperienze degli esuli dei nostri giorni. Così, di anno in anno, ho raccontato gli sbarchi dei profughi, gli emarginati delle periferie delle grandi città, la salvaguardia della natura, la violenza sulle donne, la storia di Riace, il paese simbolo dell’accoglienza».

Quali sono i tuoi interessi più recenti e i tuoi progetti ancora in corso?
«Dante esule  e La bellezza dentro sono i due progetti a lungo termine che mi vedono tuttora impegnato nella ricerca e nell’approfondimento di nuove situazioni e sfaccettature tematiche. Altro progetto al quale mi sono dedicato negli ultimi anni è la trilogia Babbo mio , Mamma mia  e Bimbo mio , un lavoro di ricerca sulla figura genitoriale e sulla sua complessità nell’ambito delle reti sociali e familiari.

Quest’ultimo progetto è stato esposto in una mostra, a cura di Denis Curti, inaugurata il 12 dicembre 2018 negli spazi del Tribunale di Ravenna».

Questo e molto altro sul numero 312 de Il Fotografo 

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