20 Giugno 2019 di Vanessa Avatar

Nel 1987 Barbara Kruger, nota artista americana e compagna di studi di Diane Arbus, pubblica uno dei suoi fotomontaggi più famosi: I shop therefore I am (Compro e quindi sono). È una critica personale e provocatoria degli stereotipi e dei cliché sui quali la pubblicità del tempo basa le proprie convinzioni. La Kruger riflette e punta il dito sulla società di quegli anni, completamente piegata al consumo irresistibile di oggetti che hanno assunto un enorme significato sociale: sono diventati simbolo di appagamento personale, rappresentazione di uno status o esibizione di opulenza. Oggi, dopo trent’anni in cui il nostro sguardo sul mondo è apparso essere più consapevole, realistico e responsabile, sembra di essere tornati lì, al 1987, a Barbara Kruger, ma con una sostanziale differenza. Oggi, l’uomo contemporaneo ha trovato un nuovo modo di accarezzare il proprio ego. Non si circonda più di chissà quali oggetti preziosi e rari, ma gliene basta uno, lo smartphone, con cui rivolge l’obiettivo verso se stesso. La fotografia è diventata immagine e, ahimè, l’immagine più diffusa è sempre e solo quella di noi stessi. Siamo passati quindi dal racconto della nostra identità attraverso l’esibizione di oggetti all’esibizione dell’identità come oggetto. In realtà, se questa voglia di fotografarsi rimanesse un fatto privato e non pubblico, sarebbe tutto più intrigante e autentico. Questo, però, non può accadere perché l’amplificazione dei media digitali degli ultimi quindici anni ha stimolato una nuova narrativa fotografica e d’immagine, riempiendo il mondo di selfie, pose, corpi abbronzati e sorrisi. Così a rimetterci è l’empatia, che è sempre stata un ingrediente fondamentale della fotografia e della comunicazione: non ci si mette più nei panni degli altri, ma si mostrano semplicemente e soltanto i propri. Sembra di essere tornati ai felici anni Ottanta. O forse, più drammaticamente, la realtà è diventata così difficile da affrontare che è meglio guardare altro: preferibilmente, se stessi. Ma davvero siamo diventati più interessanti della realtà che ci circonda? Davvero un selfie con la Monna Lisa vale la pena di essere inviato a tutti? Stiamo vivendo non più nella società dell’apparenza, ma della trasparenza, dove lo spazio segreto e intimo è obsoleto e vietato e il desiderio lascia posto al solo piacere fine a se stesso. La fotografia, se è solo esposizione del sé, diventa pornografia. Non so. Io, nel dubbio, evito con cura ogni superficie riflettente, e piuttosto che specchiarmi e guardarmi nel camerino, preferisco comprare un maglione online. Girare l’obiettivo della macchina fotografica verso se stessi è come girarsi nel letto la mattina in una giornata di primavera, mentre il mondo là fuori ci sta aspettando. Oggi, ci raccontiamo una realtà che non esiste, costruita unicamente a nostra immagine e somiglianza. E non me ne vorrà Barbara Kruger se a questo punto la cosa più naturale che mi viene da scrivere per chiudere il cerchio sia: I selfie therefore I am , (Faccio selfie quindi sono).

A cura di Giuseppe Mastromatteo, Artista e direttore creativo

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