Vogliamo ricordare Carlo Orsi, il grande fotografo scomparso pochi giorni fa, con un articolo apparso su IL FOTOGRAFO, a cura di Francesca Marani.
Carlo Orsi: fotografie di un cambiamento
Ci sono libri fotografici che lasciano un’impronta indelebile in chi li sfoglia, diffondendosi celermente e trasformandosi in veri e propri successi editoriali. Col passare del tempo diventano introvabili, pietre preziose ricercatissime da collezionisti e cultori della letteratura fotografica.
Tra questi casi si può certamente annoverare Milano di Carlo Orsi e Giulia Pirelli, pubblicato nel 1965 da Alfieri Editore per l’esiguo numero di cinquecento esemplari. Immagini in bianco e nero, frammenti di Milano che s’impastano con i versi di Dino Buzzati (1906-1972) e si fondono musicalmente grazie alla grafica di Giancarlo Iliprandi. Impossibile dimenticare l’eleganza del vigile bianco in copertina, modello inconsapevole di una composizione misurata, dove le linee del corpo sono il prolungamento naturale di quelle che segnano lo spazio circostante, una fermata della metropolitana immacolata, priva di scritte e di sporcizia.
Carlo Orsi ha ventiquattro anni e si misura con le prove della professione di fotografo, o meglio, di narratore e cronista della realtà. Il suo percorso incomincia presto, quando, ancora giovanissimo, frequenta il bar Jamaica – è a due passi dalla casa natale in via Solferino –, storico ritrovo nel cuore di Brera per artisti, scrittori e intellettuali.
Ed è proprio qui che, in maniera del tutto fortuita, conosce e stringe amicizia con Ugo Mulas, maestro da cui apprende tutti i segreti della camera oscura, divenendo il suo primo assistente.
La Milano che cambia
Poco prima che inizi il sodalizio col mondo della moda, sul finire degli anni Sessanta, grazie ad una commissione della Rinascente in cerca di un servizio dal taglio reportagistico, Orsi fotografa Milano con la sua inseparabile Leica. Milano nel 1965 è una metropoli in espansione che sembra andare perennemente di fretta, rincorrere il futuro e il volume edito da Bruno Alfieri rispecchia proprio i chiaroscuri di un periodo di transizione.
Accanto alle botteghe artigiane, ai cortili e alle case a ringhiera, alle piazze e ai luoghi storici della città, troviamo la proliferazione edilizia, il fermento della Borsa, le sommosse degli scioperi, l’ombra del grattacielo Pirelli che si estende minacciosa sulla piazza della Stazione Centrale – non a caso Orsi avrebbe voluto intitolare questa fotografia Le mani sulla città, pensando al film di Francesco Rosi del 1963 –.
I segni germinali di un cambiamento epocale dei costumi del Paese ci sono tutti: i milanesi lavorano indefessamente, si spostano in macchina, comprano ai grandi magazzini, si lasciano sedurre dalle pubblicità affisse sui muri, sognano l’America. Così la piazza del Duomo di notte si trasforma in una moderna Piccadilly Circus rischiarata dall’insegna luminosa della Coca-Cola e una cariatide sulla facciata della Cattedrale acquista le sembianze di una miniatura della Statua della Libertà.
Ma Milano è anche solitudine, coltri di nebbia fitta, fatica, grida di protesta, carri funebri, treni stipati in partenza per il Sud. Emerge il nero profondo del malessere che si annida nelle grandi città, dove in tantissimi sono alla ricerca di un lavoro, di condizioni di vita migliori. Un quadro subito stemperato dalla luce delle fotografie liriche di Giulia Pirelli che introducono l’osservatore a scorci e vedute di infinita poesia. I contrasti delle luci e delle ombre s’intrecciano inesorabilmente, rivelando l’amore che Orsi nutre per la sua Milano, velato da perplessità e qualche delusione.