19 Maggio 2018 di Vanessa Avatar

Ma tutta questa spinta verso il dettaglio, verso la nitidezza, non farà male agli occhi?

testo a cura di Denis Curti

Milano si è appena conclusa la Design Week, evento che per la città vuol dire soprattutto Fuorisalone. In sintesi, una grande festa di paese che occupa intere zone. I quartieri si trasformano in district e gli spazi espositivi in location. La forza propulsiva del design arriva a coinvolgere i cinque sensi a nostra disposizione e i visitatori di tutto il mondo ne sono completamente coinvolti. Si vede. Si tocca. Si sente. Si assapora. Si annusa. Il design è tutto questo e molto altro. È design thinking, design language, design system, design digitale, ma è anche forma, pensiero, astrazione e sentimento e tutti si ritrovano, nel bene e nel male, inginocchiati davanti ai nuovi paradigmi dettati dalla cultura e dall’estetica del design. La sensazione che ho vissuto è un po’ fisica e un po’ mentale: è come ritrovarsi seduti su scomode poltrone, protagonisti di un presente che deve subito fare i conti con il futuro.

La fotografia e la dittatura del design

Voglio dirlo chiaramente: la dittatura contemporanea del design ci costringe a una rincorsa verso continui aggiornamenti, che si rivelano poi superflui perché si torna sempre e comunque alla spietata condizione del già visto e dei cicli e ricicli della storia. Quest’anno sono tornati gli anni Settanta e il prossimo vedrà il trionfo degli Ottanta. Forse esagero, ma mi pare di assistere a una vera e propria deriva del design-pensiero verso l’omologazione. Anche la fotografia, naturalmente, deve fare i conti con questo tema. L’ossessione verso la dimensione decorativa, quella delle belle stampe, delle belle cornici, dei formati giganti, delle installazioni a tutti i costi, ma anche verso le doppie pagine pubblicate sui giornali sempre più spettacolari, va a scapito della poesia, della forza dei contenuti, del racconto e dell’autorialità.

Sianne Ngai, un’anglista dell’università di Stanford, ha dedicato uno studio approfondito sulle categorie estetiche che dominano la sensibilità corrente e ha indicato questi comportamenti come quelli tipici di una cultura dove sono crollati gli argini tra arte e consumo, arte e design, arte e vita quotidiana, tra la hegeliana “domenica della vita” e la prosa dei giorni feriali . Quando il poeta metropolitano Ivan Tresoldi scrive sui muri «Il futuro non è più quello di una volta», ci esorta a riflettere sull’oggi e forse ci invita a scrivere di un domani ancora possibile e credibile. E la fotografia, che da sempre ci consente di comprendere la storia e il presente, può essere uno strumento chiave per immaginare e raccontare il futuro. Una fotografia consapevole della propria ambiguità, ma libera dagli schemi della sola estetica. Se ascoltiamo la lezione di Leon Battista Alberti, quando scrive: «La bellezza è accordo e armonia tra le parti in modo tale che non sia possibile aggiungere, togliere e cambiare qualsiasi cosa senza compromettere il tutto» allora, forse, può apparire chiaro che tutto questo insistere nel vedere bene, nel presentare sempre tutto a fuoco fin nei minimi dettagli serve a poco. A me pare che tutta questa nitidezza non faccia affatto bene agli occhi e tanto meno al cuore.

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