28 Gennaio 2019 di Vanessa Avatar

Massimo Berruti

Al colore preferisce il bianco e nero. – Il paese che ha nel cuore è il Pakistan. – Il personaggio che vorrebbe ritrarre è Donald Trump e tra la serenità e l’adrenalina sceglie quest’ultima.

Intervista a Massimo Berruti

Quando ti sei innamorato della fotografia?
«Prima ancora di aver fatto una foto, quando vidi lo scatto del ragazzo ruandese con tre colpi di machete sulla guancia destra di James Nachtwey. Quello è stato il momento in cui ho compreso il potere comunicativo della fotografia, rendendomi conto al contempo che questo poteva essere il mestiere per me. È scoccata la scintilla e quella sensazione la porto sempre con me».

Quali sono le prerogative che contraddistinguono un fotoreporter?
«La curiosità. Il forte trasporto di andare a vedere con i propri occhi questioni di cui non abbiamo compreso tutto, cercando una chiave di lettura che dia un senso a questo mondo. Poi l’indipendenza da un punto di vista familiare, il non dover rendere conto ai propri cari. La passione travolgente e la voglia di mettersi in gioco, di vincere le proprie paure e di superare se stessi. Strada facendo si scopre che i limiti sono quelli che ci imponiamo e che si possono gradualmente forzare».

Quali sono i primi passi per avvicinarsi alla carriera di fotografo?
«Le grandi novità sono insite nell’evoluzione della professione. Al di là di questo, il consiglio che darei è di perdersi in questa passione e di lasciarsi trasportare. Quando si sente una voce che risuona dentro di te bisogna saperla ascoltare, seguirla, ed è senza dubbio la cosa migliore da fare anche in termini di spendibilità. Inevitabilmente, si arriva a essere più riconoscibili in quello che si sceglie e in quello che si sviluppa in termini di progetto».

L’ultimo viaggio che hai fatto?
«Nel luglio del 2017 ero in Mali. Poco prima, negli Stati Uniti, avevo realizzato la mia prima storia a colori dopo dieci anni».

Com’è stato tornare al colore e cosa hai documentato?
«Giocare con la nuova variabile del colore è stato divertente, molto interessante, un esperimento ben riuscito. Ho scelto di seguire una piccola storia, ma emblematica. Il progetto è stato finanziato da un festival nel nord della Francia, a Saint-Brieuc. Si tratta di una piccola cittadina in West Virginia al centro di una zona libera da frequenze radio. Il silenzio radio serve a proteggere un radio telescopio che fa parte di un programma di ricerca di vita extraterrestre. Questo territorio è divenuto una sorta di rifugio. È stato scelto come luogo di aggregazione di una piccola comunità di persone che si ritengono elettro-ipersensibili. Stanno male se a contatto con i campi elettromagnetici. Pensiamo alle reti wireless, ai telefonini, ai televisori e ai computer».

Insieme ad altri fotografi avete dato il via a MAPS. Di cosa si tratta?
«È un collettivo che ha appena compiuto un anno di vita dopo una lunghissima gestazione. Insieme a altri due fotografi provenienti dall’Agence Vu, come me, e da tre fotografi ex Magnum, ci sono anche gli italiani Alessandro Penso e Simona Ghizzoni. Il 6 settembre del 2018 è stata inaugurata una nostra collettiva dal titolo Unrest al GC De Markten , centro culturale nel cuore di Bruxelles. Il prossimo progetto a cui stiamo lavorando si chiama Reset  e io mi dedicherò alla dipendenza da Internet. Il reportage svolto in West Virginia mi ha aperto a una serie di riflessioni – non c’è molta narrazione fotografica in questa direzione –».

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
«La cosa più concreta che vedo all’orizzonte adesso è un progetto dedicato all’emergenza idrica a Gaza»

Immagine in evidenza

Detroit, USA, 15/11/2012. Un inviato di Fox News in città per riportare di un ipotetico caso di corruzione in cui sarebbe coinvolta parte della giunta comunale è in attesa del collegamento in diretta

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