10 Gennaio 2019 di Vanessa Avatar

Nino Migliori

Mentre  con sguardo realista racconta l’Italia del Dopoguerra, Nino Migliori è già proiettato nel mondo della sperimentazione, dove le idee e i sogni prendono forma e diventano una traccia da consegnare al futuro.

Alla fine della guerra Nino può finalmente alzare lo sguardo e ricominciare a osservare il mondo. Gira per Bologna, la sua città, senza il timore di dover scappare al suono di una sirena d’allarme. Incontra gente, altri giovani come lui ai quali quegli anni bui avevano negato la libertà e i desideri. Con la macchina fotografica ferma le loro espressioni, i convivi davanti ai bar o sotto la luce fioca di un lampione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta riprende la vita per strada, nelle campagne dell’Emilia e di altre realtà italiane con leggerezza e, talvolta, ironia, senza dimenticare l’urgenza dei bisogni e la complessità del momento storico. Le sue fotografie sono vicine alla visione neorealista e mostrano un Paese operoso e antico, che lenisce le ferite di guerra ancora fresche, mentre sogna la modernità. Nino è giovane e curioso, ama leggere, ascoltare musica, sperimentare, assaporare la vita in tutte le sue forme. Un giorno nella sua piccola camera oscura scopre su un foglio di carta fotografica di scarto un’ossidazione dovuta al gocciolamento di chimici di sviluppo e fissaggio. «Quell’immagine venuta fuori dal nulla, inesistente nella realtà e mai cercata, ha aperto un mondo di riflessioni su quello che poteva essere la fotografia», ricorda. La scoperta coincide con il suo interesse per l’arte informale, grazie anche all’amicizia con alcuni pittori vicini a questa corrente tra cui Emilio Vedova, Tancredi Parmeggiani e Vasco Bendini. Sono gli anni in cui al di là dell’oceano Ornette Coleman suona il free jazz e Jackson Pollock getta colate di vernice su grandi tele distese a terra. Migliori è attirato da questa emancipazione della forma e da una progettualità stringente perché permette all’artista di lasciare una traccia della propria immaginazione, e non più solo della realtà. Un’idea, questa, che lui coltiva per decenni anche nella ricerca sui muri, perché «(…) l’uomo davanti ai muri si disinibisce. Sia che adoperi una chiave per graffiare o (…) una bomboletta spray, libera il suo inconscio, la sua gestualità ed è se stesso», afferma.

Nino Migliori e la fotografia

Altrettanto fa lui in camera oscura, quando non sviluppa immagini riprese dal vero ma ne crea di proprie, rendendo visibili le sue idee e i suoi fantasmi, grazie alla creatività e all’artigianalità. In questo suo fare introduce il gesto, un elemento più vicino alla pittura che alla fotografia. Lavora off camera, ossia senza l’apparecchio fotografico, manipolando materiali e strumenti propri della fotografia. Realizza così idrogrammi, ossidazioni, pirogrammi, stenopeogrammi, lucigrammi, cellogrammi e cancellazioni, sfruttando la reazione chimica dei liquidi di sviluppo e fissaggio o di altre sostanze con i sali d’argento della carta fotografica. Inoltre brucia, graffia e incide la gelatina ancora umida delle pellicole oppure utilizza materiali trasparenti come il cellophane e, più tardi, il plexiglas direttamente sulla carta o nell’ingranditore, al posto dei negativi. Negli anni Ottanta realizza i fotobiografemi, collocando per una notte alcune carte fotografiche sul pavimento di una cantina “abitata” da parecchi scarafaggi. Su ogni insetto aveva fatto in modo che fosse attaccato un sottile filo di acciaio armonico con led di colori diversi. Al mattino ha sviluppato i fogli rivelando i percorsi degli scarafaggi. La ricerca di Migliori segue l’evoluzione dei linguaggi e delle tecnologie. Negli anni Settanta e Ottanta lavora sulle sequenze e sui fotogrammi ripresi “al televisore”. Inoltre indaga sulla cultura contemporanea e sul consumismo, a testimoniare la sua capacità da gioioso outsider di rinnovarsi continuamente. Per il puro piacere della scoperta e della libera espressione.

 

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