26 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Qual è il futuro dell’Europa? La risposta di Fabio Sgroi inizia più di vent’anni fa, quando l’Europa era speranza, fertile sogno di comunione, prima di finire stretta tra le contraddizioni del presente. Il viaggio nell’Europa Centro-Orientale insegue l’euforia per la nascita di un nuovo soggetto sociopolitico, quando cadevano i confini e prima che si costruissero muri: in mezzo ci sono finite generazioni intere, che si sono rese conto di quanto sarebbe stato difficile costruire davvero un’identità comune. Per ridare un futuro all’Europa, bisogna fermarsi ad ascoltarla.

Fabio Sgroi in “Past Euphoria. Post-Europa”

L’Europa è un posto strano. È la metafora di qualcosa di più complesso, simbolo dello stato di eccezione attuale, da cui sembra non si possa tornare più indietro. Per comprendere cos’è lo stato di eccezione, bisogna far riferimento allo stato di diritto, ossia quel sistema, di origine occidentale, costruito per far funzionare la macchina statale in modo stabile, controllando che ogni singolo pezzo del meccanismo funzioni bene: politica, economia, giustizia, etica. Si tratta di un sistema messo a regime in circostanze normali, è la prassi della democrazia, ma nel caso sopraggiungesse una crisi, cosa succede? I governi dirottano le loro politiche verso lo stato di eccezione, mettendo da parte anche la democrazia. Si tratta di un sistema muto che, in caso di crisi, congela diritti e regole. Giorgio Agamben definisce magistralmente l’efficacia di questo marchingegno, affondando l’artiglio nelle faglie di un Occidente che ormai confonde costantemente la regola con l’eccezione. Questa sembra essere la modernità: un luogo entro cui essere integri e mantenere le promesse del progresso, a tutti i costi. È un dispositivo per salvaguardare il sistema, che coinvolge nazioni e media e che si paga a caro prezzo con l’obolo dell’identità. In cambio un continente moderno, accogliente e senza frontiere. È necessario però mettere bene a fuoco l’assurdità e farsi una domanda: l’identità di chi? Quella delle società e degli individui. Quella delle comunità. È un meccanismo perverso, un gioco intavolato durante i summit dei grandi congressi, quelli che sancivano le identità nazionali, e che oggi lasciano il posto ai briefing delle grandi aziende mediatiche: quando l’ombra di una crisi mina la sovranità, si agita il bisturi della democrazia, come sigillo di garanzia e strumento capace di estirpare dalla società il cancro del dubbio e della paura. È un intervento chirurgico di precisione che coinvolge nazioni e media; i mezzi di comunicazione esercitano il dovere di anestetizzare gli individui, le sovranità nazionali quello di intervenire sul tavolo operatorio della democrazia. L’epilogo è uno schiaffo mediatico che intorpidisce le coscienze lasciando una ferita come segno di una violenza muta, che agisce in silenzio sui processi di costruzione dell’identità: da una parte non ci sono più frontiere, dall’altra si alzano nuovi muri. Un gap del sistema che azzera ogni coordinata. Sembra un assedio medioevale per una guerra da Ottocento: nuovi muri senza frontiere, per vecchie identità nazionali senza nazioni. Un paradosso. Dov’è finito il Duemila? È nella schizofrenia del post-europeo, che Kundera, già negli anni Ottanta, sintetizza come il crepuscolo di un continente, ormai privo di nazioni, che però sopravvive attraverso la filigrana dei nazionalismi. Una degenerazione democratica con un proprio tornaconto, che alimenta la macchina della globalizzazione. Un marchingegno facile da usare: è necessario un “bisturi” e un luogo sicuro entro cui assopire le società. Così si costruiscono e s’impacchettano i concetti di nazione e identità, tutto comodamente preincartato dalla democrazia che può fare a meno della gente, tutto facilmente consumato dalla gente che può fare a meno della propria identità. È la bulimia di una modernità entro cui rimanere integri per mantenere le promesse del progresso. In questo sforzo di tenere viva una promessa c’è una cosa che la modernità dimentica, ossia, come afferma Walter Benjamin, che i diari della civiltàsono allo stesso tempo diari di barbarie. Spesso, quindi, il meccanismo s’inceppa e la forma che assume l’identità si fa più ingombrante dell’odio. Questa sembra essere l’Europa, uno spazio slogato della storia, irrimediabilmente precipitato nel postpost-identitàpost-modernitàpost-occidente. Un “post-tutto” che è completamente sfuggito di mano, che ha le sue radici nell’azione politica di cui il XX secolo sembra esserne stato la fossa, perché ormai ciò che resta della politica europea è solo uno sconcertante storytelling. Si tratta del racconto perenne di un sogno che vede diverse civiltà unite in un continente transnazionale e privo di frontiere, un incrocio e un confronto tra culture che hanno il fardello comune di una storia recente da non ripetere. Le frontiere, dunque, sembrano non esserci più. Al loro posto l’insidia dei muri. Un paradosso imbarazzante? Si tratta di una trappola costruita come una matrioska: si apre la prima e si ritrova la stessa, in scala, così da esaurire poco alla volta anche l’euforia di una qualsiasi conquista socio-politica, perché sembra che non si vada mai più indietro di oggi. L’euforia, parafrasando Hannah Arendt è alle spalle. Questo è il punto centrale della ricerca di Fabio Sgroi, che non a caso individua nell’Europa Centro-Orientale uno snodo di tensione identitario irrisolto, dove poter cercare i brandelli di una storia dai quali partire per pensare un’Europa diversa: cercare nelle macerie e nella storia dei luoghi, nella memoria e negli occhi della gente di oggi, la ricetta per un futuro senza frontiere. Veramente senza frontiere. Past Euphoria è un progetto nato negli anni Novanta e sviluppato fino ai giorni nostri, percorrendo l’Albania, l’Austria, la Bulgaria, la Germania, la Macedonia, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Slovacchia e l’Ungheria. È un’indagine rivolta al passato, attraverso il presente, per rintracciare frammenti di futuro.

Past Euphoria: sequenza di scatti, dipanati in un ventennio, che punta l’obiettivo sui luoghi e sugli sguardi che hanno subito i violenti effetti delle dinamiche geopolitiche recenti

Past Euphoria è una sequenza di scatti, dipanati in un ventennio, che punta l’obiettivo sui luoghi e sugli sguardi che hanno subito i violenti effetti delle dinamiche geopolitiche recenti, dalla caduta del muro di Berlino fino alla costituzione della Comunità Europea. Emerge l’incertezza di una stabilità promessa, sia prima, che dopo il 1989, la faglia di un territorio, che ha vissuto la tensione identitaria tra stereotipi e luoghi comuni, miserie e fasti, guerre e rivoluzioni. Si tratta di territori contesi anche con il silenzio, sezionati prima dal machete dei regimi e poi dalla lama della democrazia. Il lavoro di Fabio Sgroi ha il suo centro nevralgico in Germania, epicentro di questa contraddizione storica, che continua a portare i segni di un atroce passato. L’intensità del cambiamento, viva negli occhi dei giovani tedeschi è ammansita da uno sguardo malinconico; sono occhi severi che non sembrano differenti da quelli degli uomini cechi, polacchi, ungheresi e albanesi o da quelli delle donne macedoni. Si tratta di sguardi che segnano traiettorie profonde, occhi che sembrano conservare una certa monumentalità, come i resti del passato che li circonda. I loro volti sono abrasi dalla memoria ma anche dalla modernità e non sono differenti nemmeno da quelli di vecchie fotografie sbiadite dal tempo. I loro volti portano i segni dell’euforia moderna, ma improvvisamente precipitano nella malinconia di un passato irrequieto, pur non avendolo mai vissuto, come fosse congenito. Mentre i media narrano le azioni di un’Europa impaurita dall’altro, un continente che si rifugia in se stesso, il progetto di Fabio Sgroi si presenta come un diario che racconta il fulcro di un’instabilità identitaria, il racconto della quotidianità di una società che ancora oggi cerca la propria cultura nel confronto con l’altro, nonostante il dolore sembra non aver fine. Sgroi ha attraversato l’Europa Centrale e quella post-sovietica, individuando un disagio comune e forse la stessa nevrotica ricerca di un’identità individuale da condividere con la collettività. Le immagini del progetto propongono vecchie domande, che però, alla luce delle moderne tensioni, hanno ancora una presa reale sull’attualità. Il fotografo conosce bene quei territori così complessi e stratificati; luoghi che subiscono le insidie del progresso o incassano i colpi della propria storia, nella moderna contraddizione occidentale tra le ferite di un passato e un presente esangue. Un presente irriconoscibile che sembra fare a meno del futuro, un post-presente in uno stato di eccezione perenne che non ha nessuna risposta al deficit identitario in corso.
Testo di Salvatore Davì

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