27 Dicembre 2018 di Vanessa Avatar

Saverio Lombardi Vallauri

Ordine e cura maniacale di ogni dettaglio per un fotografo perfezionista che parte da un solido bagaglio di studi tra ingegneria e architettura.

Nikonista dal 1981 (aveva diciassette anni quando al collo gli fu messa una Nikkormat con un 50 mm), Saverio Lombardi Vallauri è tra gli interpreti italiani più noti nell’ambito della fotografia di architettura. Le sue ricerche l’hanno condotto in vari Paesi del mondo e ha pubblicato su riviste di architettura e design note a livello internazionale. Conosciuta e molto apprezzata nell’ambiente, ma anche dalla committenza, è la sua attenzione al particolare, la sua meticolosità nella preparazione e nell’esecuzione del lavoro.

Intervista a Saverio Lombardi Vallauri

Possiamo affermare che questo riconosciuto rigore deriva dalla formazione, dalla frequentazione delle aule dell’università di Architettura?
«Sicuramente, ma è anche ciò che mi ha motivato nella scelta di questo tipo di fotografia», spiega Saverio. «L’ordine mi protegge. L’ordine è meno arbitrario del disordine. A un certo punto, ho capito che la fotografia mi serviva a stare bene perché, se da un lato vi è un elemento artistico non discutibile, dall’altro il controllo tecnico e il controllo formale consentono di difendersi dalle eventuali critiche. Sono cresciuto in una famiglia di eccellenze con un fratello maggiore che faceva le stesse mie cose sin da bambino, come lo sport e l’attività scoutistica, primeggiando. Lui era bravissimo in tutto, anche a scuola (ora è professore universitario) e mi ha sempre accompagnato la sensazione che non avrei mai ottenuto gli stessi risultati. Ero un ragazzo e così scelsi una professione, quella del fotografo, dove almeno attraverso la pulizia e il rigore avrei potuto evitare l’errore. Quest’idea mi rasserenava. Dopo di che, nel tempo, ho cercato di imparare a essere a volte meno preciso, magari non tanto sul lavoro, perché i clienti sono i primi che apprezzano questi aspetti, ma su me stesso. Oggi riesco ad arrivare in ritardo di qualche minuto a un appuntamento!», dice sorridendo il fotografo.

Il progetto Metroquadro.  Gli chiediamo: non è sbagliato, quindi, definirti un perfezionista?
«Sono un fotografo ordinato, mi piace, se possibile, riorganizzare la realtà e nel testo che accompagnava il progetto Metroquadro ho scritto: “Amo gli angoli retti, la centralità, la simmetria”. Metroquadro è un lavoro che è piaciuto per la sua particolarità. È un progetto di ricerca lontano dai commissionati e dai redazionali. «È nato tutto a partire dal disordine che avevo visto appena fuori Firenze quando, affacciandomi dal treno in attesa di entrare in stazione, avevo notato una massicciata coperta di bottiglie, fazzoletti, buste di plastica, rifiuti e ciarpame di ogni genere. Questa immagine si è cristallizzata nella mia mente e, a un certo punto, ho pensato a quante cose potessero stare in un’unità di superficie. Con questa premessa ho deciso di investigare un’unità di misura spaziale che mi permettesse di circoscrivere la realtà. Ho trovato delle barre metriche che, disposte a cornice, davano il titolo al progetto». A volte, guardando le opere ci si chiede se il metro sia stato applicato in post. Invece, lo scatto nasce così, contenendo già tutti gli elementi. Non tutte le fotografie sono state scattate ponendo l’apparecchio in modo da cogliere in pianta quel tassello di realtà. Per esempio, a Venezia, il Metroquadro è stato prodotto montando la struttura su un albero di magnolia».

Di città in città.  Saverio Lombardi Vallauri ha trascorso un anno alla scoperta di venti capitali nel mondo, fotografando oltre trecento edifici. È lui stesso a considerare quest’opera una parte fondamentale del proprio lavoro in architettura. Della casa editrice Hachette, in collaborazione con Il Sole 24 Ore, Le capitali dell’architettura contemporanea è stata una prestigiosa collana di cinquanta volumi dedicati ai progetti, agli uomini e alle visioni che hanno trasformato le città moderne, da Londra a Dubai, da Tokyo a Milano.

Gli chiediamo con quale attrezzatura ha affrontato questo compito.
«L’ho realizzato con la Nikon D800 e con il Nikkor 24mm F/3.5D ED PC-E. I pregi del 24mm decentrabile sono di avere un notevole angolo di ripresa e una grande qualità nel decentramento. Utilizzo poco il movimento del basculaggio perché, soprattutto sulle ottiche corte, non ho quasi mai la necessità di orientare diversamente il piano di fuoco. Con questa focale ho fatto decine di migliaia di scatti. Le foto che hanno richiesto più attenzione sono quelle che ho dovuto realizzare a mano libera. È più complesso trovare il punto esatto dove le linee si congiungono, dove tutto ha un senso. Un altro limite è quando devi fare delle forcelle per un HDR o per un HDR selettivo. Devo dire, però, che i sensori Nikon hanno una tale ampiezza di gamma dinamica che è raro che tu debba, soprattutto in esterni, aver bisogno di tirare fuori un HDR».

Torniamo un po’ ai tuoi primi momenti professionali. A quegli inizi, non sempre facili, che ti portano a crescere e ad accettare lavori diversi:
«Le prime collaborazioni», spiega Lombardi Vallauri, «furono con una casa editrice fiorentina che stampava strenne di architettura medievale per le banche. Le realizzavo con un amico d’infanzia che, come me, non ha terminato il percorso universitario per tuffarsi subito nel mondo della fotografia. Per avere una formazione, mi iscrissi allo IED di Roma. In quel periodo frequentavo molto il teatro di ricerca e facevo parte, in qualità di fotografo, di una compagnia con la quale gestivamo tre teatri nell’area fiorentina. Il mio compito era documentare tutto. Ero molto influenzato dal lavoro di Maurizio Buscarino: riusciva a proporre una fotografia molto diversa da quella classica per il teatro. Il resto del mondo teatrale, però, voleva una fotografia alla Le Pera. Non sentendomi vicino a quell’espressione, fu chiaro che non c’era spazio. Iniziai a dedicarmi all’architettura e allo still life con alcuni colleghi con i quali avevo aperto una società a Firenze. Da lì, poi, sono passato a Roma e, infine, a Milano».

Abbiamo avuto l’occasione di scoprire questa tua ricerca intitolata Diacronia spaziale in occasione della mostra alla Galleria Bel Vedere di Milano. Ce ne parli?
«Due anni fa, un’amica architetta mi ha chiesto, per un concorso del MOMOWO (Women’s Creativity since the Modern Movement ) incentrato sul mondo del design e della progettazione femminile di case private, di realizzare una serie di scatti di lei in casa sua. Non essendo un ritrattista e cercando di aggiungere qualcosa alla solita fotografia di interni, ho messo in scena il suo modo abituale di vivere i suoi spazi privati. Ho cercato di offrire una narrazione che è insieme spaziale e temporale grazie alle possibilità date dagli obiettivi decentrabili. Ho realizzato dei trittici utilizzando uno scatto decentrato tutto a sinistra, uno centrale senza decentramento e uno spostato verso destra. In ognuna di queste foto ho inserito lei intenta nel vivere la sua casa. C’è, per esempio, un tavolo da pranzo dove lei s’intrattiene e disegna, dove prende un caffè. In seguito i tre fotogrammi sono stati composti in un unico formato poi dilatato perché non ho voluto utilizzare la sovrapposizione parziale dei singoli scatti. Il gioco consente di avere la persona in posizioni diverse e di aggiungere una profondità temporale. Alla fine, presentandoci al concorso, abbiamo vinto. La mostra è itinerante, da Seul a Oporto, da Bratislava a Torino. Partendo da questa occasione, ho voluto approfondire ulteriormente il ragionamento in occasione di un evento realizzato da Viabizzuno alla Mondadori di Segrate. L’azienda ha ideato un evento di illuminazione sul palazzo progettato da Oscar Niemeyer coinvolgendo una settantina di fotografi che, ognuno con il proprio stile e modo, erano chiamati a documentare la giornata. Essendo in molti e limitati nel movimento, mi sono reso conto che a fine giornata avremmo avuto le stesse foto. Deciso a fare qualcosa di diverso, ho ripreso l’idea dei decentramenti sperimentati a casa dell’amica architetta. Anche in questo caso, con gli invitati che giungevano, si percepisce benissimo il tempo che scorre».

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