31 Maggio 2019 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

L’incontro con Simone Sbaraglia è stato l’occasione non solo per approfondire il suo lavoro ma anche per capire quale direzione stia prendendo, o debba prendere, la fotografia naturalistica in un’epoca in cui siamo bombardati da migliaia di immagini provenienti da ogni angolo del pianeta che ci permettono di ammirare i luoghi più remoti o gli animali più rari. Basta digitare su Google le parole “orso” e “salmone” – come ci ha invitato a fare Simone – per trovarsi di fronte a decine e decine di pagine di fotografie, tutte simili, che ritraggono questo magnifico animale intento a pescare… immagini molto belle, spesso spettacolari, ma che presto finiscono per risultare noiose e monotone. Motivo per cui oggi anche i fotografi naturalisti, come già è accaduto agli autori di altri generi, sono chiamati a trovare nuove strade per far emergere i propri scatti dalla massa.

Intervista a Simone Sbaraglia

Simone, per molto tempo la fotografia naturalistica è stata vista come mera documentazione. È ancora così oggi?
La documentazione ormai è stata fatta, e prosegue quotidianamente con l’impegno di milioni di fotografi in tutto il mondo. Ma questo, inevitabilmente, ha cambiato la fotografia. Pensiamo a quanto è cambiata la fotografia di guerra, di reportage. Oggi i conflitti si raccontano da sé, tramite i protagonisti, tramite i social. Un fotoreporter, allora, deve approfondire, deve fare quello che i protagonisti con lo smartphone non possono fare, perché non ne hanno il tempo o le capacità, deve approfondire il messaggio. Questo significa passare da una fotografia che è semplice documentazione di quello che abbiamo di fronte a una fotografia che comunica qualcosa di personale, un’emozione. Questo approccio mi ha portato a un tipo di ricerca fotografica più lunga, durata una decina d’anni, che mi ha permesso di passare da una fotografia documentativa a una fotografia più astratta, universale, che comunica qualcosa che va al di là del soggetto.
Quando è maturato in te questo diverso approccio?
Ero in Giappone, sull’isola di Hokkaido, dove vivono le gru, animali incredibili che hanno un rituale di corteggiamento straordinario. La situazione, però, è molto caotica, si fa fatica a capire dove inquadrare. Ho iniziato a scattare ma le foto non rappresentavano assolutamente l’emozione che stavo provando. In quel momento ho capito che la fotografia è solo un linguaggio: è un mezzo, uno strumento che serve a comunicare qualcosa. Ma per riuscire a comunicare in modo efficace, dobbiamo sapere che cosa vogliamo comunicare prima di iniziare. Non possiamo iniziare a parlare senza sapere che cosa dire. La stessa cosa accade nella fotografia. Il lavoro molto importante che dobbiamo fare è passare da una mera documentazione della realtà al trasmettere all’osservatore le emozioni che si provano facendo esperienza del quotidiano. Vogliamo comunicare caos, armonia, pace? Se partiamo dal messaggio, la fotografia cambia completamente. Dopo qualche riflessione, mi sono reso conto che in questa situazione così complessa quello che m’interessava presentare più di ogni altra cosa erano l’armonia, l’eleganza, l’equilibrio espressi dalle gru durante la loro danza. Anche le fotografie hanno cominciato a cambiare, sono andato a cercare immagini che comunicassero questo messaggio preciso, ossia l’armonia, e non il caos o altri aspetti.
Nella fotografia di reportage oggi contano più le storie che le singole immagini. Succede lo stesso anche nella fotografia naturalistica?
La fotografia deve essere al servizio di una storia, deve raccontare qualcosa che vada al di là della singola immagine. E ciò è molto importante oggi, perché viviamo in un momento cruciale, di svolta. Negli anni Ottanta e Novanta, avevamo un’attrezzatura primordiale, niente autofocus, niente istogrammi o altri ausili. Tecnicamente realizzare immagini, soprattutto di natura, era difficile: di conseguenza, i fotografi erano pochi. Il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione attrezzature straordinarie, si viaggia più facilmente, i costi si sono abbattuti. Tutti, e non solo i professionisti, abbiamo a disposizione macchine eccezionali. Ci sono semplici appassionati che producono immagini di una qualità inarrivabile per un professionista di dieci-quindici anni fa. Non lo dico in maniera nostalgica o critica. Il fatto che il mezzo di comunicazione diventi accessibile a tutti è una cosa straordinaria, positiva, ma ci deve far interrogare su che cosa dobbiamo fare noi professionisti oggi in questo mondo che sta cambiando.
Ossia?
Un fotografo professionista ha la possibilità di investire tempo e riflessione. Ciò significa che un professionista può produrre lavori più profondi, dettagliati, che raccontano storie che nessun fotografo occasionale o amatoriale potrà mai raccontare. E invece che cosa è successo? Si è andati alla ricerca della foto sempre più spettacolare. La competizione, anziché spostarsi verso la ricerca dell’approfondimento, contro la superficialità, si è spostata sul piano della spettacolarità. Tu fai una foto spettacolare? Io la faccio più spettacolare di te! Ma questa è una rincorsa impossibile, che non ci porterà da nessuna parte: si è svuotata la fotografia di qualunque vero contenuto, la fotografia non è più il racconto di una storia ma la ricerca dell’istante spettacolare, dell’immagine che ti colpisce ma non ti dice niente. Penso, invece, che per trovare una via d’uscita sia necessario tornare alla vera natura della fotografia, tornare a quando Terzani diceva “fotografare significa cercare nelle cose quello che uno ha capito con la testa”.

L’intervista completa è su Digital Camera Magazine n. 199

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