Le tue fotografie ritraggono soggetti consenzienti, che guardano in camera esprimendo stima e complicità nei tuoi confronti. In che modo entri in contatto con loro, conquistandone la fiducia? «Ho una buona capacità di adattarmi a situazioni differenti e mi piace scoprire culture nuove. Quando sono con gli zingari, condivido con loro i vari momenti della giornata. Lo faccio con sincerità e spontaneamente, senza dare alcun giudizio e penso che la gente, questo, lo percepisca. Per esempio, quando passo del tempo nei villaggi zingari ho l’impressione di essere considerata come una piccola finestra aperta su un mondo che in generale li respinge. Il fatto che una persona esterna si interessi alla cultura gitana è molto importante per chi vive nei campi nomadi».
Nei tuoi reportage ricorri spesso al ritratto ambientato, potresti spiegare il tuo rapporto con questo genere fotografico?«Lavoro con un obiettivo di 28mm e non ritaglio le mie foto. Ho bisogno di sentirmi il più possibile a contatto con la gente, per riuscire a catturare il momento giusto. A volte, quando distolgo lo sguardo dal mirino, mi rendo conto che sono molto vicino ai soggetti che fotografo e questo mi piace moltissimo perché le persone che guardano le mie foto riescono quasi sempre a immedesimarsi. Gli ambienti hanno un’importanza fondamentale nei miei reportage, soprattutto nei ritratti, perché descrivono le figure umane attraverso gli interni delle loro case o le strade che percorrono ogni giorno».
«Per diversi anni ho lavorato su diverse comunità di zingari. In Andalusia ero con gli zingari spagnoli, a Perpignan con gli zingari catalani e a Les Saintes Maries de la Mer con zingari Manouches e Sints. Tutte queste comunità hanno caratteristiche diverse. Ma l’abitudine culturale che li accomuna è quella del “re bambino”, che consiste nel soddisfare tutti i desideri dei più piccoli. In alcune famiglie, invece, la “cerimonia del fazzoletto” (controllo della verginità) è ancora praticata. Mi è stato concesso di partecipare ad alcune di queste feste tradizionali e sono rimasta molto colpita dalla disinvoltura con cui si rende pubblico un evento così intimo e personale nella vita di una donna. Un altro atteggiamento sociale che mi ha colpito moltissimo nella comunità di Perpignan riguarda i bambini che si comportano come gli adulti. Di sera i ragazzini vogliono apparire come gli uomini e le ragazzine si vestono e si truccano come le donne».
Quali sono i tuoi progetti attualmente? Pensi di continuare e approfondire il racconto fotografico di queste comunità? «Al momento sono impegnata sul progetto editoriale che unirà i miei lavori sulle comunità zingare in Spagna e in Francia. Vorrei mostrare le radici culturali comu- ni, ma anche le particolarità di ciascuna di queste comunità. Per il momento sto mettendo in ordine tutte le fotografie e i documenti raccolti, continuando a fre- quentare regolarmente gli ambienti gitani per approfondirne la conoscenza».
testo a cura di Michela Frontino
Jeanne Taris
A 17 anni scopre la fotografia e si dedica al racconto per immagini di situazioni difficili, di uomini e donne atipici. Il suo lavoro, condotto con costanza e dedizione, rimane nel cassetto fino al 2015 quando si iscrive a un seminario Leica. In questa occasione è incoraggiata a mostrare il suo lavoro. Inizia così una seconda vita, quella di fotoreporter che ama l’immersione in realtà diverse dalla propria, trascorrendo lunghi periodi a contatto con il mondo esterno. Le sue foto sono state esposte in festival internazionali e pubblicate su riviste e quotidiani come Sud-Ouest, Polka #39, 6 MESI #16, Vice, The Washington Post, Rivista LFI. Nel 2018, vince il Leica Galleries International Portfolio Award all’Arles Voies Off Festival. Nel 2019 vince un premio al Kuala Lumpur International Photoawards e il suo lavoro è esposto alla Galleria Ilham di Kuala Lumpur.