UNA MOSTRA DI RITRATTI FEMMINILI REALIZZATI DA FOTOGRAFE AMERICANE
Apertura al Pubblico – da venerdì 13 maggio a domenica 29 maggio
Orari: venerdì 13 maggio dalle 16:30 alle 19:30
Lun-Sab 10:00-19:30 – Dom 11:00-19:30
Da sabato 14 maggio:
Space Gallery Tiffany – Via del Babuino 118 Roma, 00187
Tiffany & Co. ospiterà la mostra fotografica The Female Portrait: Photography by American Women, che comprende i lavori di artiste americane pioniere nel campo della fotografia.
L’installazione mette in mostra la vita delle donne intrecciata con la storia, attraversoritratti espressione di vita quotidiana e sensualità.
La mostra contiene una serie di lavori di artiste come Diane Arbus, Margaret Bourke White, Imogen Cunningham, Linda McCartney, Sheila Metzner, Judy Dater, Doris Ulmann, Dorothea Lange, Annie Leibovitz, Lisette Model, Eve Arnold, Mona Kuhn, Cindy Sherman, Nan Goldin, Florence Henry, Lee Mille, Vivian Maier.
Tutte queste donne sono considerate artiste eccezionali, che attraverso la fotografia, hanno rotto i confini in un campo dominato dagli uomini e le cui immagini catturano uno sguardo unico della figura femminile in età moderna.
Fin dalla sua fondazione, Tiffany è sempre stata in prima linea nel sostenere attività culturali significative che portano nuove idee nel campo dell’arte, del design e della cultura.
A cura di Denis Curti, questa mostra riunisce la missione culturale di Tiffany e lo spirito di innovazione su scala globale.
Diane Arbus, Margaret Bourke White, Imogen Cunningham, Linda McCartney, Sheila Metzner, Judy Dater, Doris Ulmann, Dorothea Lange, Judy Dater, Annie Leibovitz, Lisette Model, Eve Arnold, Mona Kuhn,Cindy Sherman, Nan Goldin, Lee Mille Vivian Maier, Florence Henry.
“Sono poco più di una trentina le immagini scelte per raccontare la Storia di un Grande Paese, attraverso lo sguardo femminile e dentro lo sguardo femminile delle più note fotografe americane. Del resto, come spesso accade, la qualità conta più della quantità e se poi a raccontare sono le donne, arrivare dritti al cuore delle cose appare molto più semplice e naturale. Raccontare l’America, per certi versi, significa passare in rassegna la storia del cinema e, forse, ancora di più, la storia della fotografia. Probabilmente le ragioni vanno cercate nella vicinanza dei grandi eventi di questo Paese con l’epoca delle grandi invenzioni, o nell’innata capacità di accogliere e riconoscere il valore dei nuovi linguaggi, quelli su cui ancora oggi ci confrontiamo sul terreno dell’arte e della comunicazione. E bene, tra le potenze mondiali, furono proprio gli Stati Uniti a farsi culla e dimora della seconda rivoluzione industriale, ed è stato proprio in questo grande Paese che l’invenzione della fotografia è riuscita, prima che altrove, a intrecciare la sua vita con quella della società civile e della storia nazionale. È qui che, per dirla con le parole di John Szarkowski (direttore emerito del dipartimento di fotografia di un tempio dell’arte mondiale come il MoMA di New York) «la fotografia è nata tutta intera, come un organismo. La sua storia consiste nel percorso attraverso il quale ne facciamo la progressiva scoperta».
Proprio dalle parole di John Szarkowski e dalla sua opera volta alla comprensione dell’America attraverso l’arte e la fotografia, vogliamo partire per introdurre questa iniziativa culturale promossa e ideata da Tiffany, con il fine di rendere omaggio alle proprie origini: a New York e alla mitica quinta strada a pochi passi da Central Park. Per il brand di fama internazionale, la scelta del tema espositivo acquisisce un valore del tutto personale e si orienta verso l’accezione dell’arte come visione dello sguardo femminile.
La fotografia diventa il filo conduttore attraverso il quale le autrici interpretano, come in uno specchio, ora se stesse ora da donne altre donne, contribuendo e segnando il racconto della incredibile bellezza di un grande Paese.
Su questo livello di lettura, il punto di partenza del viaggio che attraversa “The Female Portrait: Photography by American Women” non può che essere l’opera di Margaret Bourke White: svolta fondamentale nella fotografia moderna, sua la copertina del primo numero di Life del 1936. L’immagine è imponente. Un bianco nero che ha colpito milioni di americani: la diga di Fort Peck, nel Montana, realizzata in pieno New Deal. Uno scatto che fece il giro del mondo e che segnò un punto di svolta nella professione e nel ruolo del fotografo, che finalmente si apriva all’universo femminile e alla sua sensibilità narrativa. Sempre lei che, per fotografare New York dall’alto, vince il senso di vertigine e si arrampica sulle cime più alte dell’Empire State Building per ottenere il punto di vista che ancora nessuno era riuscito a mettere a fuoco. Da allora rimarrà alla storia come Maggie l’indistruttibile e ancora oggi è un esempio di coraggio e motivo d’orgoglio femminile.
Al suo fianco, seppur con un approccio diverso, Lisette Model, pioniera indiscussa della Street Photography newyorkese, un vero e proprio movimento di pensiero degli anni ’40, a cui si ispiravano apertamente le grandi umaniste, tra cui la stessa Margaret Bourke White e Diane Arbus. Fotografie e vita corrono parallele, ognuna sotto l’influenza dell’altra e, insieme, partecipano al racconto collettivo di un Grande Paese. A seguire, secondo la linea evolutiva di grandi fatti storici e grandi protagoniste, Diane Arbus si rivela come il punto di non ritorno per una società che si rivede, e amaramente si riconosce, negli abissi più profondi. Questa avventuriera coraggiosa, che sfida i canoni sociali di una borghesia chiusa in se stessa, dedica tutta la sua vita alle presenze più autentiche della società americana.
Diane Arbus spalancava le finestre del suo Paese e allargava gli orizzonti dell’immaginario americano evidenziandone tutte le sfaccettature, non solo nella bellezza ma anche nelle profonde contraddizioni.
In questa direzione, sulle tracce di una modernità già conquistata, il viaggio prosegue con le stampe, quasi tutte vintage originali, di alcune tra le più importanti interpreti della fotografia internazionale. Il colore si alterna al bianco e nero e un allestimento adeguato agli ambienti di Palazzo Ruspoli raccoglie l’iconografia di un secolo, indissolubilmente legata ai testi poetici e alle biografie delle autrici. Altro esempio di purezza emotiva, capace di estendere il senso della mostra ben oltre l’indagine estetica è Dorothea Lange. Con lei la fotografia si apre all’esperienza documentaria che esplora, cerca ed entra nel profondo degli eventi con il fine di raccontarne l’essenza. L’umanità del suo sguardo ne distinse l’opera tra i talentuosi fotografi della Farm Security Administration che si impegnarono nel racconto poliedrico e collettivo della grande depressione negli Stati del Sud. Dalle sue fotografie emerge l’amore incondizionato per l’umanità, la battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza. È sua l’iconica immagine “Migrant Mother”, una Pietà moderna cha affonda le radici nel disperato orrore della povertà, pur coltivando un disperato bisogno di salvezza.
Ognuna di queste immagini, ciascuna con la propria identità e la propria storia, ricorda quanto anche un solo sguardo sia in grado di esprimere sentimenti come il coraggio, l’energia, lo slancio, l’amore. La forza e l’intensità delle opere esposte in mostra si esprimono attraverso l’identità e la sensibilità femminile che guida lo sguardo e il punto di vista di un racconto capace di emozionare e catturare a sua volta lo sguardo di ogni suo visitatore.
Nell’insieme delle opere esposte in mostra, la forza e l’intensità della forma e del contenuto va ricercato nella chiara consapevolezza del trait d’union, vale a dire nell’identità e nella sensibilità femminile che guida lo sguardo e il punto di vista. Perché nella società dei padri, quella del pensiero pregiudiziale e occidentale, la visione di una donna è contemporaneamente parola e voce, presenza e cittadinanza, azione e rivoluzione, prodezza e riscatto.
Del resto, la storia dell’arte, come quella specifica della fotografia, è un territorio dominato dalle stesse dinamiche che sono in atto nella società: così esclusioni e discriminazioni di genere hanno spazzato via il lavoro di donne di straordinario talento. Poi, il tempo e la memoria hanno fatto il resto. Una mostra dedicata alle donne, sulla carta, può sembrare limitante: voler perimetrare o addirittura “ghettizzare” opere che non hanno bisogno di un display separato per emergere. Ma c’è ancora molto passato da recuperare, tanti tasselli da ordinare e collegare in un presente sempre troppo poco attento alle ragioni del sentimento.
E qualora sembrasse troppo ambizioso pensare di colmare le lacune che si sono accumulate negli anni, è invece molto probabile che un progetto espositivo di valore possa offrire materiali e percorsi di crescita e riflessione, per un pubblico attento e per le generazioni future.”
Denis Curti