Fuori Fuoco apre le porte degli studi di maestri e maestre della fotografia italiana, ringraziando con un dono. Con questa prima visita iniziamo un lavoro di archeologia, intesa non come recupero, ma riscrittura dei ricordi ed esperienze attraverso l’archivio personale che dà forma alla memoria collettiva. Benvenuti nello studio di Maria Vittoria Backhaus, una donna la cui arte trasborda i confini della fotografia per farsi lezione d’estetica.
La Wunderkammer di Maria Vittoria
La terra trema nello studio di Maria Vittoria Backhaus. Non solo per le vibrazioni della metropolitana poco distante, ma soprattutto perché, dopo averla conosciuta, si ha l’impressione di essere venuti a contatto con una forza della natura. Entrando nel suo studio, abbiamo l’impressione di esserci immersi in una Wunderkammer in miniatura, in cui naturale e artificiale si fondono. Lo spazio si sviluppa su due livelli: il piano terra popolato da busti e bambole, “anime del purgatorio” e piante esotiche, e il sottosuolo, più essenziale e rigoroso, a cui si accede attraverso una scala a chiocciola. A collegare il sopra col sotto ci pensa l’archivio. All’incirca otto armadi a due ante in cui trovano posto faldoni di negativi scattati dagli anni Sessanta a oggi. Cinquant’anni di fotografia che raccontano la storia e i cambiamenti della nostra società.
Found&Lost: la memoria delle origini
L’archivio, come “luogo dell’inizio”, è anche il luogo in cui l’intervista comincia. È Maria Vittoria a dirci che, se non avesse fatto la fotografa, probabilmente sarebbe diventata un’archivista: «È un po’ la mia mania. Penso che il fotografo sia una specie d’archivista. Prima di venire via da Filicudi ho fatto un catalogo di oggetti che ho lasciato lì». Il catalogo Found&Lost, che Maria Vittoria definisce «un racconto sulle Eolie», è una sorta di libro della memoria a cui Maria Vittoria ha affidato il suo ricordo personale dell’isola.
Il racconto per immagini di oggetti persi e ritrovati ci ricorda del dono che abbiamo portato per ringraziare chi ha aperto le porte del suo spazio. Tiriamo fuori una scatola in cui hanno trovato posto un tavolo e una sedia in miniatura. Alla sorpresa segue un sorriso e una risata dolce. Le chiediamo a cosa le fa pensare il dono e lei risponde con una domanda: «Volete vedere il mio ultimo Presepio?». Maria Vittoria costruisce presepi da vent’anni: «tutti gli anni i nipoti, gli amici mi chiamano e sono costretta a farlo. Però ho deciso che quest’anno è l’ultimo. Il ventesimo, numero tondo». Afferma decisa.
Il racconto per immagini di oggetti persi e ritrovati ci ricorda del dono che abbiamo portato per ringraziare chi ha aperto le porte del suo spazio. Tiriamo fuori una scatola in cui hanno trovato posto un tavolo e una sedia in miniatura. Alla sorpresa segue un sorriso e una risata dolce. Le chiediamo a cosa le fa pensare il dono e lei risponde con una domanda: «Volete vedere il mio ultimo Presepio?». Maria Vittoria costruisce presepi da vent’anni: «tutti gli anni i nipoti, gli amici mi chiamano e sono costretta a farlo. Però ho deciso che quest’anno è l’ultimo. Il ventesimo, numero tondo». Afferma decisa.
Presepe Laico
Il Presepio Laico è un progetto “familiare” nato nel 1999. Da allora, il rito si rinnova annualmente prendendo spunto dall’attualità. Ispirato al #MeToo e ai migranti nel 2018, quest’anno il Presepio ha avuto come set Venezia e l’acqua alta in cui nuota anche un nutrito banco di “Sardine”. Dal Presepio alla moda il passo è breve. Maria Vittoria continua il suo racconto:
«Il fatto di fare le foto con le miniature in realtà è molto vecchio. Già negli anni Settanta facevo queste cose. È un gioco per- sonale. Quando ho cominciato con la moda e a lavorare in studio, al tempo significava lavorare con la modella su sfondo tutto bianco. Io, invece, costruivo set giganteschi, e dentro mettevo le modelle. Era un modo abbastanza diverso di realizzare immagini di moda. A me interessa il racconto, poi metto dentro quello che devo fotografare». Il racconto, non l’oggetto dunque. Nella fotografia di Maria Vittoria, la minuzia sta nella cura del dettaglio, nell’estetica sublime della mise en scène in cui si sviluppa il racconto per immagini. Un’arte della miniatura che affonda le radici negli studi di scenografia all’Accademia di Brera e nelle lunghe e stimolanti frequentazioni col mondo dell’arte che negli anni Sessanta e Settanta comincia a dialogare con la fotografia, in un intreccio di poetiche che molto spesso porta l’artista a usare la fotografia e il fotografo ad avvicinarsi all’arte.
«Il fatto di fare le foto con le miniature in realtà è molto vecchio. Già negli anni Settanta facevo queste cose. È un gioco per- sonale. Quando ho cominciato con la moda e a lavorare in studio, al tempo significava lavorare con la modella su sfondo tutto bianco. Io, invece, costruivo set giganteschi, e dentro mettevo le modelle. Era un modo abbastanza diverso di realizzare immagini di moda. A me interessa il racconto, poi metto dentro quello che devo fotografare». Il racconto, non l’oggetto dunque. Nella fotografia di Maria Vittoria, la minuzia sta nella cura del dettaglio, nell’estetica sublime della mise en scène in cui si sviluppa il racconto per immagini. Un’arte della miniatura che affonda le radici negli studi di scenografia all’Accademia di Brera e nelle lunghe e stimolanti frequentazioni col mondo dell’arte che negli anni Sessanta e Settanta comincia a dialogare con la fotografia, in un intreccio di poetiche che molto spesso porta l’artista a usare la fotografia e il fotografo ad avvicinarsi all’arte.
La fotografia di moda e l’amicizia con Walter Albini
Gli anni Ottanta segnano il passaggio alla fotografia di moda a cui Maria Vittoria si avvicina con lo sguardo critico di chi, reduce da un anno di lavoro nei comitati studenteschi del Sessantotto, vedeva nella fotografia uno strumento di documentazione del reale e nella moda l’esaltazione del superfluo. Cruciale è l’amicizia profonda con Walter Albini, stilista prodigioso, innovatore visionario che le mostra un nuovo modo di pensare alla moda: «Erano anni in cui si sperimentava. Io facevo le foto mentre Walter era sul set e lui faceva le sfilate, mentre io nei camerini cucivo paillettes sui suoi vestiti. Walter mi ha insegnato che l’estetica non è una cosa superflua, ma una disciplina».
The Family of Man
Quando chiediamo a Maria Vittoria di parlarci di un oggetto per lei particolarmente importante, l’emozione di trovarsi tra le mani il catalogo di The Family of Man è tanta. Alla mostra e al suo storico catalogo si deve una prolifera generazione di fotoreporter, nata dalla visibilità raggiunta a livello mondiale da professionisti come Robert Capa che raccontavano la realtà Slightly out of Focus, leggermente fuori fuoco. The Family of Man è stato il primo libro di fotografia ricevuto in dono alla fine degli anni Cinquanta, quando, in Italia, i libri di fotografia erano introvabili: «Quando ho cominciato a fotografare, i libri di fotografia non c’erano ma c’era questo catalogo The Family of Man, un libro di una mostra realizzata a New York. Me l’avrà portato qualcuno dall’America. È un libro che conosco a memoria, conosco ognuna di queste foto».
testo a cura di Carmen Palumbo
Maria Vittoria Backhaus
Maria Vittoria Backhaus studia scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera. In quegli anni frequenta lo storico Bar Jamaica, luogo d’incontro di artisti e fotografi come Ugo Mulas, Alfa Castaldi, Mario Dondero. Tra le prime donne a svolgere la professione di fotoreporter, i suoi lavori vanno dal reportage sul banditismo sardo alle foto del backstage dei fotoromanzi girati a Cinecittà. Gli anni Ottanta segnano il passaggio alla moda e al design con L’Uomo Vogue e Casa Vogue, con cui comincia una lunga collaborazione. Parallelamente al suo lavoro nell’ambito pubblicitario, porta avanti progetti personali che spesso si materializzano in cataloghi e libri d’artista a tiratura limitata. Accanto alla sua attività di fotografa, mantiene viva quella di archi- vista, dedicandosi alla catalogazione e classificazione del suo archivio personale.
Leggi l’intervista completa acquistando IL FOTOGRAFO #322, o scarica la versione digitale qui.
Leggi l’intervista completa acquistando IL FOTOGRAFO #322, o scarica la versione digitale qui.